Film sulla desolazione umana e sugli alienati, con le stereotipie mentali e comportamentali tipiche di chi vive la proria esistenza sul bordo del baratro, salvo poi precipitare quando i sentimenti prendono "voce". Squallori e povertà estreme registrate con stile essenziale. Celestini e Tirabassi sono bravi, ma convincono poco nei panni dei matti e questo è un limite non da poco.
Ben sceneggiato. Attraverso la collaudata formula dello sfalsamento temporale si vive un crescendo drammatico rivelante gli agghiaccianti particolari che hanno forgiato negli anni le attitudini psichiche del protagonista. Il girato grezzo ed efficace e la fotografia cupa e sporca lavano per ossimoro di dosso a Tirabassi e Maya Sansa la puzza da fiction, restituendoceli attori veri. La filastrocca colonna sonora canticchiata da Celestini voce off è esilarante. La scena finale ci lascia li a guardare... e ci sorprende a pensare. Davvero buono.
MEMORABILE: "Io che ti ho fatto ti disfo... come ti ho fatto ti disfo..."
Inaspettato esordio positivo, quello di Celestini dietro la macchina da presa. Il merito principale è quello di riuscire a riscattare una storia risaputa (compreso il
prevedibilissimo scioglimento finale) con una regia (che non se la tira) sobria e mai sopra le righe che riesce a ritrarre in maniera riuscita la pazzia del protagonista e più in generale la condizione manicomiale dell'Italia dell'epoca, fatta di totale squallore e solitudine. Poco "fresco" nelle sue tematiche, ma essendo un'opera prima, può dirsi riuscita.
E così scappa fuori che l'attore meno cinematografico che tu possa concepire è quello che lo è di più. Che il film-meno-filmico che uno s'aspetterebbe invece no, è fatto di cinema: l'amour-fou più di quello per Betsy, carosello di scenari realistici che s'imprimono nella mente come amarissime polaroid-monicelliane. Attori veri, storie attendibili, regia che non predilige i vezzi del divo ma è dotata di quella leggerezza che solo pochi sanno maneggiare. Il miglior film italiano del 2010 arriva da chi non t'aspetti: Nicola è la pecora nera, Nicola è il capro espiatorio d'una società impassibile.
MEMORABILE: "Stai zitto Pancotti Maurizio, ti prego statti zitto".
Sono rimasto molto colpito dall'esordio di Celestini dietro la macchina da presa, senza dubbio uno dei migliori prodotti italiani dell'anno 2010. Lo stile è sobrio, schietto, senza ricami formali e in questo rispecchia la semplicità e l'umiltà di Celestini stesso (ho avuto una breve discussione alla Mostra del Cinema di Venezia 2010). Buona la prova di tutto il cast, davvero egregia la sceneggiatura, buone la fotografia e la colonna sonora. A mio avviso da non perdere assolutamente.
Ottimo esordio di Ascanio Celestini che dirige ed interpreta la pecora nera, ovvero un'innocente ed innocua persona rinchiusa in un manicomio. Il film fotografa con molto realismo la vita all'interno di un manicomio e la solitudine che circonda le persone che ci abitano. Bravissimi Celestini e Tirabassi.
Pio pio pio... è questo buffo verso a scandire le riflessioni del protagonista e a dare la cifra caratteristica a un film particolare che presenta la follia in bilico tra dramma e ironia, tra tenerezza e abbandono. Attori validi in toto; è molto parlato, in certi momenti anche troppo, ha forse il torto di mantenere lo stesso andazzo per tutta la durata del film e questo toglie forza a certi passaggi.
La pazzia è un argomento notoriamente spinoso; e si rischia sempre di scivolare nella parodia involontaria, o nel dramma di denuncia, che però si ferma lì, senza analizzare più approfonditamente. In questo caso, il regista riesce perlomeno a presentarci un protagonista, che non vuole suscitare simpatia, o compassione, ma semplicemente vive l'unico tipo di vita che gli viene concessa, quasi sempre rinchiuso in un manicomio, con l'"amico". I suoi ragionamenti sono elementari, lineari, per tutti, ma la sua mente gli rema contro e ciò che dovrebbe curarlo lo isola sempre più. Semplice ma genuino.
MEMORABILE: "Se ti spacchi la testa, sai che luce, con tutta la corrente che t'han dato..."; Il disordine del cervello si cura con l'ordine dell'istituto.
Argomento a forte rischio di retorica, quello del disagio mentale, viene raccontato al meglio da Ascanio Celestini che realizza un opera sospesa a metà tra fiction e inchiesta documentaristica mantenendo sempre in equilibrio le due componenti grazie ad una buona sceneggiatura. Il protagonista (interpretato dal regista) è un uomo che non suscita sentimenti di compassione, ma viene efficacemente presentato per quello che è, il frutto cioè di un sistema (scolastico e sociale) che lo ha relegato a margini della cosiddetta vita civile. Efficace.
Opera prima splendidamente riuscita che con la forza di un narrato efficace e ripetitivo delinea la situazione amarissima dei manicomi. Con un dire tragicomico, Celestini scava un tema ostico senza prendere scorciatoie, perché gli spazi bui sono dentro le teste dei matti, ma anche nelle istituzioni e nella povera gente che vive fuori. Un filtro blu scuro crea ombre profonde, adatte per riflettere e a farsi inghiottire nelle notti illuminate solo dagli elettroshock.
Dal teatro al cinema la narrazione di Celestini mantiene il sapore di nenia affabulante, aggiungendo le immagini (qui nella fotografia densamente impastata di Ciprì) di una memoria sociale da ricomporre. La storia del rinchiuso in manicomio fin da bambino è dolorosa e sconvolgente, ma l’autore le ridà anima con un linguaggio tra racconto popolare e lirica trasognata (con splendida poesia finale di Alberto Paolini), mantenendo la vergogna della psichiatrizzazione delle differenze su un livello da favola odierna, non senza tocchi d’umorismo.
Se in passato pazzia e manicomi al cinema sono stati spesso affrontati in modo drammatico e brutale, Celestini sceglie invece un approccio comico, che nella concatenazione di gag non di rado esilaranti - le affabulazioni del regista-protagonista, i suoi duetti con Tirabassi e gli interventi della suora De Santis - non manca comunque di invitare a riflettere su questa problematica condizione umana e sulle responsabilità imputabili alla famiglia e alla società. Seria e versatile la Sansa.
MEMORABILE: "Io che ti ho fatto ti disfo... come ti ho fatto ti disfo...Piopiopiopio"; la suora eccitata per la visita al papa; la spesa al supermercato.
Fin da piccolo etichettato come "strano", il protagonista è rinchiuso da molti anni in un ospedale psichiatrico, da cui esce solamente per accompagnare al supermercato un'anziana suora... Il tema del disagio mentale non è certo nuovo per il cinema italiano, ma qui è affrontato in modo diverso, con un impasto di tenerezza e compassione che non diventa mai conciliante pietismo. Attraverso i dialoghi fra Nicola ed il suo alterego, emergono i ricordi d'infanzia, le ossessioni ed i sogni marziani di un uomo diverso dagli altri, come lo sono i matti ed i poeti. Film Imperfetto, bello, toccante.
MEMORABILE: La barzelletta dei due matti e dei cento cancelli
Celestini supera con merito la prova di un film impegnativo e rischioso sul mondo della malattia mentale, riuscendo a conciliare abilmente un approccio sincero e documentato con uno sguardo ironico e leggero. Apprezzabile la scelta narrativa adottata, che prevede un sorprendente escamotage per rappresentare lo sdoppiamento mentale del protagonista. Commuoventi i tentativi di interazione con il mondo normale, densi di illusione e delusione.
La realtà dei manicomi e della psichiatria degli anni Settanta, la solitudine e l'alienazione del "diverso", la famiglia che genera "matti"... Temi forti e difficili da portare sullo schermo senza retorica, cliché e banalizzazioni. Celestini li affronta con tocco lieve e malinconico, a tratti ironico a tratti poetico, attraverso gli occhi e le parole di un protagonista (da lui interpretato) che ha il candore di un bambino e con un lento crescendo drammatico che gioca con l'alternanza presente/passato.
MEMORABILE: Pio pio pio...
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Sicuramente una bella prova. D'altronde che
Tirabassi sia bravo, si sa. Peccato che si butti
via continuamente in brutte (non sempre: Borsellino per esempio) fiction tv.