Note: Soggetto ispirato a tre racconti della scrittrice canadese Alice Munro, inclusi nella raccolta "In fuga" (2004): "Fatalità", "Fra poco" e "Silenzio".
Dopo l'infausta pellicola precedente Almodóvar torna al melodramma e risale ai vertici. Magari non straordinario a livello visivo (ma la sequenza in treno è cromaticamente notevole) ma coinvolgente, intensissimo, perfettamente bilanciato tra calcolo e visceralità, con un buon primo tempo che sembra una versione migliorata di Son de mar e una seconda parte eccellente, mirabile nell'imprimere su celluloide l'inquietante tormento - quasi da giallo - di chi deve rintracciare le proprie colpe scavando tra le altrui reticenze. Cast perfetto.
MEMORABILE: L'uomo del treno: spunto eccellente degno di più ampi approfondimenti; La protagonista cambia volto.
Se presi da una prospettiva di realismo, i vertici del dramma appaiono un po' forzati ma è il contrappeso della recitazione (bimbe escluse) e della mano alla regia a restituire credibilità. La vicenda è un racconto di sofferenza e assenze, di non detti, in cui, ancora una volta, la tensione riveste un ruolo dominante all'interno di un processo di scoperta quasi al sapore di thriller. Intense le due protagoniste.
L'Almodovar che non ti aspetti segna una tappa eterosessuale nella sua filmografia in un film di impronta drammatica la cui sceneggiatura sembra attinta da un fatto di cronaca. Raccontare l'interiorità, l'assenza di una persona cara che arriva a farsi strada interiormente fino a divenire insopportabile, non è cosa da tutti. Un film calibrato e ben diretto che si fa apprezzare soprattutto nella prima parte, meno nell'ovvio finale. Ma van lodati lo spessore dell'opera, la tecnica, la bravura degli attori e la capacità di emozionare.
È infestata dai fantasmi, Julieta, una vita costellata dai doni della morte: nell'incapacità di riconoscere l'identità dei vivi, si sublima il suo narcisismo. Un Almodovar dimesso, composto, oblativo, che riscrive i topoi del melò nei paradigmi del mito come un teorema algebrico, che rinuncia a scene madri e conduce la protagonista - con un citazionismo minimale (il simbolismo cromatico di Sirk, le fantasmagorie hitchcockiane) - al suo appuntamento col reale. Poco convincente l'ambientazione che adatta Alice Munroe al paesaggio iberico. Chiave minore di un grande autore, comunque interessante.
Dopo il poco amabile e passeggero scivolone precedente, Almodovar torna al melodramma (omaggiante Sirk), con venature quasi da thriller alla Hitch, e meno male, visti i risultati. Lo fa raccontando, con le solite doti di buon
affabulatore, una bella storia che riesce ad interessare sin quasi dall'inizio e si mantiene intrigante ed avvincente per quasi tutta la sua durata, facendo registrare pochi cali e suscitando vere emozioni. Meritevole la sobrietà dei toni, non scontata visto il regista ed il tipo di storia, che porta il buon Pedro a rifuggire scene madri e piagnistei assortiti. Bello.
Il tema dei rapporti tra madri e figli, frequente nel cinema di Almodovar, ritorna in questo melodramma post moderno alla Douglas Sirk. Una storia forte, che pur non toccando per intensità quella delle opere migliori del regista, si fa ricordare per alcune scene madri davvero riuscite, e per il personaggio della protagonista, tra le migliori figure del cinema del regista iberico. Le due attrici interpretano il personaggio con grande forza. Meno curate e piuttosto sbiadite le figure secondarie.
Almodóvar si conferma maestro nel descrivere con grande partecipazione emotiva i drammi femminili legati alla perdita dei legami affettivi, stavolta con una storia in cui il fil rouge è il senso di colpa. Molto riuscita soprattutto la prima parte, dove il flashback assume toni appassionanti, con Adriana Ugarte molto espressiva ed efficace nel trasmettere entusiasmo e autenticità. Poi il peso del dolore prende il sopravvento e la narrazione diventa un po' troppo opprimente.
Quando scopre casualmente che la figlia, di cui non ha più notizie da oltre 12 anni, è nel frattempo diventata madre a sua volta, Julieta inizia a scriverle una lettera che forse non leggerà mai... Melodramma tutto al femminile con risvolti da thriller emotivo, meno fiammeggiante rispetto ad altre opere di A. ma incentrato su temi a lui abituali come il rapporto fra genitori e figli, il peso del rimorso, il legame fra eros e thanatos, il ruolo del caso nel determinare le nostre vite. Brave le due attrici che interpretano Julieta, mentre nel resto del cast spicca solo la risentita de Palma.
MEMORABILE: Lo stacco temporale con la testa coperta da un asciugamano
Riesce ogni volta a stupire la capacità di Almodovar di raccontare storie, di creare quella tensione che ti tiene là, fotogramma dopo fotogramma a immaginare, fare ipotesi. La storia di Julieta è densa, drammatica, ed è un ritratto di donna, di moglie, ma soprattutto di madre. Brava (e bella) la Ugarte, che regge gran parte del film ma anche la sua versione "invecchiata" Emma Suárez. Grande ritorno anche per Rossy de Palma, attrice feticcio del regista, qui nei panni di una scorbutica domestica. Elegante e appassionante.
Continua a sorprendere nel cinema di Almodovar la capacità di intrigare e affabulare, anche di fronte (finalmente verrebbe da dire) all'assenza di un nucleo drammaturgico eccentrico ed estremo. E in effetti lo scarto (sia pur in continuità cinematografica con l'opus del regista spagnolo) è qui rappresentato dal racconto di una crisi depressiva realistica, malinconica, perfino riguardosa, illuminato dallo sfolgorio "telenovelistico" di Adriana Ugarte e spento dalla meschina uggiosità della Suarez (perfetta e disorientante contrapposizione bunueliana).
Almodovar rinuncia al suo cinema di provocazioni e inscena la malinconia dei rimorsi e del tempo che passa, con il suggerimento di non lasciarsi sopraffare dal dolore. Scelta senza scadere nel melò e inserendo i suoi simboli (la statuina fallica, la figlia lesbica) solo ad autocitarsi. Qualche buona trovata registica (il treno che avanza, il cambio di attrice protagonista) e qualche cromatismo spagnolo; per il resto scorre a far riflettere sulle macerie che la vita procura.
MEMORABILE: Il cervo accanto al treno; La foto ricostruita.
Un notevole ritorno, dopo la poca brillante parentesi leggera, per Almodovar alle prese con una storia appassionante che incolla lo spettatore alla poltrona. Un drammatico che amoreggia con il giallo, con tasselli narrativi che piano piano compongono un mosaico coerente e che induce alla riflessione su temi importanti quali il senso di colpa e la conseguenza delle scelte prese. Un film profondo e meravigliosamente interpretato che entra dentro senza ricorrere a una regia particolarmente attenta a estetismi formali. Imperdibile.
MEMORABILE: Le scene sul treno; Il cambio di casa a Madrid; Il personaggio di Rossy de Palma.
Nel titolo basta il nome della protagonista, come nelle tragedie greche, perché questa storia ha il richiamo e il sapore dei grandi miti classici. La vicenda della donna che racconta la sua storia alla figlia lontana e perduta è segnata dalla hybris della mancata pietas per un suicida: da lì, una concatenazione di amori e dolori sulla linea genitoriale, destinati a ripetersi nella continua frattura dei legami parentali e nella scansione dei lutti. Grande epos della famiglia e al tempo stesso della solitudine. Inevitabilmente, con catarsi.
Compatto melodramma nel quale il regista rinuncia alla coralità tipica di molte sue opere per concentrarsi sul ritratto di una donna dominata dai sensi di colpa (pensa di essere causa del suicidio di uno sconosciuto e della morte del marito). Narrato in flashback come una missiva indirizzata alla figlia che non vede da dodici anni, è un'affascinante e commovente riflessione sul destino e sulle scelte da affrontare nella vita, sorretto dalla consueta abilità di scrittura di Almodóvar e dalle ottime prove delle due Julieta (Suarez e Ugarte).
MEMORABILE: Tutta la parte sul treno; Le torte di compleanno nel cestino; Julieta accudita da Antía e Beatriz dopo il trasferimento a Madrid.
Esaurita la provocatoria spinta dada-scatologica, Edipo e il matricentrismo son stati fondazionali del cinema di Pedro. Ergo per l'ennesima, perché no, largo a Bachoffen e tutto sulla madre e annessa figlia pronta alla comprensione e al perdono solo divenuta madre a sua volta, ché finché si è solo figli, impossibile capire appieno la complessità genitoriale. Una volta rubricato il tema, felicemente rubikata è la narrazione di parallele che diventano perpendicolari (segni più o per) e viceversa (l'uguale), senza che il commuoversi passi per usura sentimentale o lanci di lacrimogeni.
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