Esordio nel lungometraggio del bizzarro Paul Bartel (il regista di ANNO 2000 - LA CORSA DELLA MORTE, giusto per citare un titolo emblematico), PRIVATE PARTS risulta quasi interamente girato in un alberghetto di infima categoria, gestito da una vecchia megera (Lucille Benson) che vi ospita la nipote Cheryl (Ayn Ruymen) momentaneamente priva di casa. Arrivata lì, Cheryl conoscerà gli strani inquilini delle camere: da un prete con tendenze sadomaso a un fotografo che ama amoreggiare con bambole gonfiabili cui sovrappone ritagli di foto con le fattezze delle donne che sogna (tra le quali anche Cheryl, naturalmente)....Leggi tutto Oppressa dall'invadenza della repressiva e bacchettona zia (che alleva un topo e se ne va ai funerali per godersi lo “spettacolo”), Cheryl prende a spiare gli ospiti entrando nelle camere durante la loro assenza. Il finale decisamente sanguinario sposta un po' il baricentro di un film fin lì concepito come thriller dalle tinte cupe e immerso in un clima da cinema indipendente tipicamente settantiano. Il cast recita diligentemente senza strafare, la sceneggiatura lascia spazio soprattutto all'inventiva del regista, cui spetta il compito di rendere drammatiche e cariche di tensione le visite di Cheryl nelle camere dell'albergo. Di gente normale se ne incontra poca, nel film, requisito indispensabile per poter divertire con dialoghi in cui il black humor di Bartel emerge già. Un paio di inattese incursioni nello splatter, nella prima parte, ci fanno capire come il regista non abbia intenzione di sottostare ad alcuna regola precisa. Film curioso e stuzzicante.
Una ragazza raggiunge l'hotel di una zia scappando dal solito tran tran ma il luogo è quanto di più strano si possa immaginare. Delirante lungometraggio, claustrofobico al punto giusto, con questa stamberga a farla da padrona in mezzo a perversioni di ogni fatta, sesso innocente ed emarginazione. Lo humour, nero sino all'estremizzazione, lo rende piacevolissimo sino al termine. Raro cult.
Sin dal suo esordio Bartel dimostra che la "normalità" non è ciò che gli interessa e costruisce un gustoso e discreto thriller che dietro alcuni stilemi del genere non è
altro che una satira di costume sulle devianze sessuali. L'albergo di zia Marta in cui capita la nipotina Cheryl ospita, infatti, uno strambo campionario di perversioni
sessuali. La ragazzina indaga e scopre che...fino ad arrivare al finale forse un pò
troppo a effetto. Diversi e spesso azzeccati i tocchi di umorismo nero di cui la pellicola è disseminata. Piccolo ma buono.
Per larghissima parte sarebbe un film di serie zeta, in quanto non può certo convincere la trovata di un hotel per l'uomo di Neanderthal o di Cro-Magnoni proprio a Los Angeles e anche retroscena, moventi del crimine e ideologie ultrareazionarie sono quelle di un cervello trapanato, colliquato e bevuto a mo di grappino. Fortunatamente ci sono gli ultimi dieci minuti di grandissimo cinema, che riescono a ridare tono, fascino e mistero a un film altrimenti da buttare...
MEMORABILE: La recita della titolare dell'albergo ai nuovi venuti; Ridicolo il modo di orientare l'ago per prelevare il sangue... come fossimo tutti sacchi di polpa.
L'esordio di Bartel in quello che resta probabilmente il suo film più perversamente affascinante. Lo spunto hitchcockiano (lo Psyco-hotel di Zia Marta) è sfruttato abilmente come sonda cinefila per scandagliare profondità in cui repressione socio-familiare e devianza sessuale vanno fatidicamente a braccetto. Le musiche di Friedhofer, la fotografia plumbea e le scenografie da pop-art decadente contribuiscon notevolmente alla riuscita di questo thriller dallo humour inquieto e malato. Ann Ruymen candida Alice in un polimorfo Overlook antelitteram.
MEMORABILE: La camera oscura nello scantinato; La zia Marta/Lucille Benson che presenta l'hotel come ".. uno dei più ripettabili in città"; Il reverendo Moon.
Ragazzina sbandata chiede ospitalità alla zia che gestisce un hotel popolato da una fauna umana alquanto problematica, a cominciare da un fotografo che si diletta a giocare con bambole gonfiabili... Thriller con venature horror piuttosto rozzo nella fattura ed anche ondivago nei suoi sviluppi, compreso il colpo di scena finale, ma che tuttavia colpisce per la perversione inconsueta di certe sequenze: al suo primo lungometraggio, Bartel si presenta come un regista interessante, certo non convenzionale. Film non molto riuscito, ma stravagante, morboso.
MEMORABILE: L'orgasmo raggiunto previa iniezione di sangue nella vagina di una bambola gonfiabile trasparente riempita d'acqua
La rappresentazione delle varie devianze sessuali è così caricaturale da rasentare il ridicolo, la tensione claustrofobica debole e incapace del soffocante climax terrifico riscontrabile nelle opere affini di Peter Walker o di Una notte per morire di Silvio Narizzano. L'aria che si respira in quelle camere d'albergo è comunque all'uopo pesante e malsana, grazie alla fotografia dai toni lividi, all'erotismo squallido e soprattutto alla figura intimidente e sessuofoba di un'ottima Lucille Benson. Colpo di coda finale ambiguo e coerente con alcune premesse del racconto.
MEMORABILE: La chiave elettrificata; la stanza-santuario del reverendo con le foto dei culturisti; l'amplesso con la bambola gonfiabile.
Pellicola interessante e che mi ha divertito. A suo modo sperimentale; senz'altro coraggiosa. Le si perdonano i difetti; ha quella dose di follia e spudoratezza che la avvicina al gusto e a certe atmosfere surrealiste: feticismo, devianze e anormalità varie, donna-idolo, humor nero. Un prodotto, d'exploitation con idee e una sua originalità (guardiamo la data); è anche un ibrido di generi. Imperdibile.
Coraggioso e bizzarro, pregno di atmosfera squallidamente colorata. Pare di essere catapultati nella pop art tra tinte accese, ironia e critica a quello che si nasconde dietro alla porta di ognuno. Il prete vizioso, la nonnetta folle e vanitosa, il fotografo introverso e represso, la zia sanguinaria timorata di Dio. Questi personaggi si intrecciano, si incontrano e si scontrano. Ma in comune hanno solo la pazzia, protagonista anche della scena finale.
Horror di stampo grottesco, girato all'interno di un lugubre albergo nel quale Paul Bartel si diverte a mescolare feticci sadomaso, follia geriatrica e alcuni momenti di terrore. Il ritratto psicopatologico del ruolo matriarcale è raccontato con un tono ambiguo, quasi ludico, estremamente angoscioso e coinvolgente, merito anche della morbosa interpretazione di Lucille Benson, attrice validissima ma poco conosciuta. Bambole e sangue ci racconta così le ossessioni sessuofobiche degli Anni 70, un decennio cinematografico ancora attuale, indimenticabile e straordinariamente ingombrante.
Sorta di rivisitazione pop a bassissima tensione delle atmosfere hitchcockiane. Bartel, più che alla trama, è interessato a mostrare una galleria di parafilie e a prendere di mira una certa concezione della “rispettabilità” che sfocia in manie repressive e follia; il tutto si traduce in una commedia nera in cui l’albergo di zia Marta, con la sua hall luminosa e le sue stanze squallide e polverose, è simbolo della meschinità che spesso si nasconde dietro un perbenismo di facciata.
MEMORABILE: Le manie di Zia Marta (la “rispettabilità” dell’albergo e le foto ai funerali); Le bambole gonfiabili trasparenti; Il Reverendo Moon; Il finale.
Buon thriller grottesco che sfocia sovente (e nel finale ci si butta a capofitto) nell'horror à la Psyco. Non tutto è riuscito, specialmente a livello di ritmo, con una parte centrale piuttosto monotona e poco incisiva. Le "bambole" del titolo italiano si spiegano verso la fine e sono all'origine di una delle sequenze più morbose e memorabili del film. Il colpo di scena è da considerarsi originale, considerato anche l'anno di produzione. Bartel è senza dubbio un bravo autore e dimostra di saper osare al punto giusto trattando temi scabrosi.
Film thriller/horror che non sarà certo tra i migliori del genere ma si lascia guardare. All'inizio sembra una mezza sciocchezza (le stanze d'albergo personalizzate, il personaggio dell'ubriacone che sembra messo li a caso), ma poi si fa apprezzare. Punta molto sulla morbosità e sulle atmosfere dello squallido albergo. Vedibile, ma poco entusiasma. Originale l'idea delle bambole d'acqua, incomprensibile la scena dell'iniezione.
Gli ultimi dieci minuti dal sapore hitchcockiano risollevano parzialmente le sorti di questo bizzarro thriller, che ha la sua cifra stilistica nella commistione fra i toni della commedia grottesca e un’atmosfera morbosa e malsana. Il tutto si svolge all’interno di un poco raccomandabile albergo la cui clientela è un vero e proprio campionario della perversione, anche se le scene voyeuristiche sono meno di quelle che ci si possa attendere. Interpretazioni in linea con gli standard di una produzione indipendente, ma il personaggio della vecchia zia bacchettona funziona.
“Bambole e sangue” è l’occhio di Andy Warhol che scruta l’anima di Alfred Hitchcock. Film insolito, grottesco, ricamato da una lieve ironia, canto del cigno di giovani e vecchi outsider avvolti dal lato oscuro del feticismo. Non vive di momenti particolarmente terrifici, ma di una progressione morbosa che sfocia in un male di vivere ineludibile. Lucille Benson, matrigna misogina e paffuta, non si dimentica.
Ospitata controvoglia in un trucido alberghetto gestito dalla zia Marta, Cheryl si mette a curiosare tra le stanze, incuriosita dagli stranissimi personaggi che circolano per i corridoi in atteggiamenti ambigui e inquietanti, specie un fotografo più che morboso dal quale però la ragazza è attratta. Un thriller specchio dei gusti degli anni '70, non privo di una certa originalità e ben graduato nell'escalation verso derive horror e perversioni varie, trattate con un certo grado di ironia che ne stempera gli aspetti più raccapriccianti. Indovinato il cast e giusto il finale.
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