Note: Girato fra luglio e settembre del 1965, ma rimasto inedito fino al 1968. Aka "Più tardi Claire più tardi...". Titolo internazionale: "Run, Psycho, Run".
Mazzata suprema del pesantissimo Brunello Rondi, tanto geniale come sceneggiatore-ideatore-sognatore quanto inadeguato come regista. Gialletto antico con la solita storia del nobile che vuole sposare una donna che somiglia tanto alla moglie morta, ma la sua famiglia non vuole. Non succede mai niente di niente, a parte quando appare in veste di attore il mitico Demofilo Fidani, ma mi rendo conto che si tratta di un'attrattiva per pochi intimi. C'è però anche il "solito" Michel Lemoine... brrr... e Janine Reynaud!
Da un lato è indubbiamente più blando di altre opere dello stesso regista; non si può però prescindere dal fatto che sia ambientato all'inizio del '900 e quindi molto basato sui dialoghi... Ma l'inconfondibile impronta rondiana nello scardinare banalità e luoghi comuni la si sente eccome. A voler esagerare fa una manovra che qualche anno dopo risulterà rivoluzionaria in un film su un giallo di Agatha Christie (il titolo non lo dico, altrimenti capireste tutto subito)... Chiaramente non è un precursore, ma gli epiteti dati da certa critica non li merita.
Di estenuante verbosità e lentezza, tocca solo marginalmente il giallo hitchcockiano, utilizzandolo come chiave di accesso per focalizzarsi su un’alta società imbellettata e vuota e sulla famiglia come nido di vipere. Suggestiva la confezione da romanzo d’altri tempi (la vicenda si svolge infatti nei primi del Novecento) a cui hanno diligentemente provveduto il bianco e nero di Bellero, le scenografie e i costumi dei coniugi Fidani-Valenza e il flauto di Gazzelloni.
Un nuovo montaggio porterebbe linfa vitale alla pellicola, che sprigiona una forte autorialità. Come ne Il demonio la colonna sonora è minimale ma imprescindibile: offre, coi suoi silenzi, generosamente spazio ai dialoghi. Il problema è che questi dialoghi sono prolissi e da fotoromanzo. Accurato nella messa in scena, nei costumi e perfino nelle acconciature, custodisce un segreto che sembra serpeggiare per tutta la sua durata, fino al finale rivelatore. Se si ha la pazienza di sfidare la verbosità, si resterà comunque soddisfatti.
Il bianco e nero della pellicola, che ricorda il gotico, dovrebbe far passare in secondo piano la lentezza dello svolgimento, la pesantezza dei dialoghi e la mancanza assoluta di suspense; purtroppo non riesce nell'intento e il film richiede allo spettatore uno sforzo non da poco per terminare la visione. Gli attori non sono male (brava la Asti) e vengono ben rappresentati i "non" rapporti familiari, ma questi due aspetti non salvano la pellicola. Se cercate un po' di movimento leggetevi il titolo internazionale.
L'artefice - in attesa di riscontro misterioso, obnubilato da ansie autoriali sintonizzate su torbide frequenze dislocate nei bassifondi psichici dell'alta borghesia dei primi anni del '900 - gira con frizione malfunzionante. L'ispirazione si direbbe dispersa: segmenti curiosi si alternano ad altri impantanati nel nulla e terribilmente verbosi; passaggi decisivi ma non risolti danno il colpo mortale all'ingegneria dell'insieme. Qualche immagine estrosa e la buona musica sono utili a mandare giù la pozione senza far storcere troppo il naso.
Mentre Lenzi e Bava già ci stordivano con caleidoscopi psichedelici e zoomate a schiaffo, Rondi (senz'altro volutamente) realizza un film demodé, girando in bianco e nero un soggetto di morbosità hitchcockiana (l'ennesimo nobile che annuncia le nozze con una donna somigliante alla moglie defunta). Il finale è buono e vale la pena arrivarci ma la verbosità e la lentezza, tutte tese a ingannarci con bluff di suspence su ciò che sta per non accadere (la lotta della Asti col bambino) possono rendere ardua la visione. Bellissima la Malfatti.
MEMORABILE: La Asti e il bambino giocano col coltello.
Un po' Hitchcock nella ripresa del tema "donne a confronto" (la prima moglie defunta e, qui, la candidata seconda), con ambientazione riuscita fra le mura pietrose di un maniero di campagna vecchia maniera. Il cast femminile è notevole, il racconto procede "leggero" come un mattone che resta indigesto per tutto il tempo del suo dispiegarsi. Appesantito da un impianto decisamente teatrale, si chiude, infine, con una spiegazione a dir poco psicoanalitica.
Anni Dieci del '900. La villa in Italia di una famiglia inglese è covo di serpi. Giallo-non giallo in cui nulla torna secondo logica e secondo canone. C'è persino la riunione finale in salotto (ove Fidani fuma il sigaro) per lo svelamento, che avviene in modo approssimativo e casuale. Gli sceneggiatori pescano ovunque: da Hitchcock a Henry James. Dal caos e dalla noia spicca un gineceo strepitoso, con donne belle e/o affascinanti, con una Béryl indimenticabile. La Falk si mangia gli altri. Merrill sempre accigliato, Rivière cerca di fare il disinvolto, Lemoine in ruolo assai oscuro.
MEMORABILE: "In questa casa soltanto le cose pulite possono dare scandalo".
Il tentativo inopinato era evidentemente quello di una architettura jamesiana tra milieu vetero aristocratico e funerei ectoplasmi, ma la rendicontazione è di un decadentismo inerme quanto stucchevole, senza neanche uno di quei lampi alti (Il demonio) e bassi (I prosseneti) che pure il cinema di Rondi talora riscatta. Impressionante diluvio di sbadigli che imprigiona la magione e il film in una tarata maledizione atarassica, impossibile da risollevar per attori pur di buona caratura (si salvan i volti della matriarca Robles e della cognata Falk). La noia che visse due volte: vertigo!
Pellicola a base di borghesi annoiati con spruzzata, per la verità piuttosto blanda, di mistero. E il problema principale del film è proprio la scarsa capacità della sceneggiatura di coinvolgere lo spettatore e creare vero interesse per la storia. I ritmi non sono altissimi e non si può dire che manchi la noia, ma un po' riesce comunque ad incuriosire se non altro per vedere dove si andrà a parare. La mano di Rondi si vede soprattutto nei dialoghi, nei personaggi e nei temi affrontati. Discrete musiche e cast diseguale ma interessante. Con i suoi perché e non manchevole di fascino.
In una fotografia vignettata, imperfetta, dal sapore antichizzato che pretenderebbe di apparire gotica, si dipana una recitazione asettica, monocorde, dai dialoghi insulsi e altamente soporiferi: è la borghesia logora e corrotta indorata da bellezze femminili. L'unica che tenta di sparigliare le carte donandoci una boccata d'aria fresca, è la svitata Ruth (Adriana Asti) dall'istinto animalesco sottilmente pedofilo. Ma è un elemento marginale buttato lì a spettinare le nuove generazioni senza troppa convinzione e costrutto. Restiamo così incollati in questa pasticciata confusione.
MEMORABILE: Lo sguardo strabico di Lemoine; Ruth che tenta di nascondersi sotto il pagliericcio come un animaletto selvatico.
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Visto che Luca lo ha citato diciamo, ai meno giovani, che la figura di Demofilo Fidani faceva un certo effetto sui 40enni d'oggi. Particolarmente celebre verso la metà degli anni '80, su di lui si narravano storie in grado di far venire la classica "pelle d'oca".
Stando a certe notizie di cronaca, Fidani è stato consulente anche di celebri esponenti del mondo politico dell'epoca, e altre personalità famose.
E' celebre (tra gli amanti del bis) per avere presenziato, come "director", anche in ambiente cinematografico sia nella regia di alcuni strampalati "spaghetti western" (venati di nero) tipo E ora... Raccomanda l'Anima a Dio!, come nella direzione di un curioso giallo (A.A.A. Massaggiatrice Bella Presenza Offresi...) e per finire con la realizzazione di erotici misti a commedia tipo La Professoressa di Lingue...
Il dottor Boyd (Georges Rivière), in una delle scene finali, discutendo con la servitù, veste un abito scuro. Andando via, apre la porta per uscire, e ne esce con un abito chiaro. (Prodigi del montaggio...)