Non traggano in inganno la locandina e il bianco e nero in 4/3 alla C'è ancora domani: il film di Von Horn è un dramma sempre più cupo col passare dei minuti, che partendo da una canonica storia di povertà postbellica affronta vari livelli di maternità malata passando da freak circensi alla The elephant man - film citato sin dal notevole inizio psichedelico - a un allucinato trio al femminile che fa volare il film in un secondo tempo dai tocchi quasi horror. Memorabile Ava Knox Martin, sinistro giglio nero dagli echi bergmaniani e ioneschiani. Ottima estetica, finale imperfetto.
La prima parte del film, per quanto scintillante da un punto di vista visivo, sembra piuttosto usuale, "limitandosi" a scandagliare soprattutto la condizione della donna nella Grande Guerra, facendolo peraltro benissimo. La seconda invece è un'agghiacciante discesa negli Inferi e negli antri più reconditi e neri dell'animo umano durante la quale, pur sobriamente, non si arretra dinanzi a nulla. Solo il finale restituisce uno spiraglio di flebile luce a chi guarda. Intenso sotto ogni punto di vista. Notevoli le prove della Sonne e della Dyrholm. Un devastante pugno in faccia.
MEMORABILE: "Il mondo è un posto terribile, ma dobbiamo credere che non sia così"; Il modo in cui Dagmar, durante il processo, risponde alle accuse.
II destino capriccioso scontroso fetente, la retribuzione karmica imprevedbile e infame, l'impotenza operaia, il potere inoperoso, la madre-matrice corrotta alla radice: tra Von Horn e Von Trier non c'è che un passo da compiere sul terreno di Bergman, con scarpa di Browning e piede di Lynch, l'andatura di un Dickens neogotico e l'orma fangosa di Tarr solcata dalla metanoia di Zulawski: orrore e meraviglia del vivere del mondo della forma si compenetrano cannibalizzandosi reciprocamente in un Moloch estetico la cui schiacciante bellezza lascia orfani di parole e disarmati di pensiero.
Cupi rintocchi premoniscono l'apocalisse uroborica che si consuma nel corpo che divora se stesso in altre vite; le facce mostruose si sovrappongono. Il calmiere del mondo richiede di essere saldato con la privazione dell'umanità: così sarà per Karoline, l'ottima Vic Carmen Sonne, nel bel bianco e nero polveroso appiattitto di contrasti di Michal Dymek. Magnus Von Horn descrive la visione (ricorrente è la mostra del pozzo irideo) degli inferi più comuni (sua anche la sceneggiatura) in cui svetta imperiosa la Dagmar di Trine Dyrholm. Prodigio di poesia scabra è l'epilogo.
Nella Copenhagen del primo dopoguerra, un'operaia intreccia una relazione con il padrone della fabbrica. Quando resta incinta, spera che lui la sposi ma... Nella prima parte, una via crucis costellata di miseria, umiliazione, squallore, nella seconda uno sguardo verso quell'abisso senza fondo preannunciato dalla breve sequenza di apertura. Da una vicenda di cronaca, un film formalmente curatissimo, intriso di un pessimismo tanto integrale sulla vera natura umana sotto la maschera sottile dell'ipocrisia sociale che il piccolo sprazzo di luce nell'epilogo appare quasi incongruo.
MEMORABILE: I volti distorti all'inizio; Al processo, l'accusata si rivolge al tribunale e al pubblico in sala: "Davvero pensate che fosse possibile?".
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CuriositàDaniela • 4/02/25 16:40 Gran Burattinaio - 5945 interventi
Una didascalia finale avverte che il film si ispira ad una storia vera. SPOILER SPOILER SPOILER Si tratta della storia di quella che viene ritenuta la più letale serial killer della storia danese: Dagmar Overbye, processata per aver ucciso tra il 1913 e il 1920 almeno 9 bambini che le erano stati affidati perché, dietro compenso, trovasse loro una sistemazione presso famiglie benestanti. La Overbye, che aveva spontaneamente confessato di averne uccisi un numero ben maggiore, venne condannata a morte ma la pena fu commutata in ergastolo. Morì in carcere nel 1929 a 42 anni.