Un capolavoro da recuperare, vincitore del gran premio speciale della giuria a Cannes. Un monologo triste e seducente, mai noioso. Un'opera encomiabile per come descrive i casi e le vicissitudini della vita. Parigi in bianco e nero affascina e cattura. Da un regista suicida un lungometraggio con dei dialoghi profondi, siglato da un'eccellente regia in un clima decadente che sovrasta il tutto. Impossibile dimenticare un'opera di tale spessore emozionale.
Nel suo implacabile essere per la morte, tra i film più heideggeriani che mi sia dato ricordare. Eustache, partendo da premesse cinefile leggere e tutto sommato autoreferenziali (la Nouvelle vague a cui rimandano le icone Leaud e Lafont), immerge il b/n chirurgico della sua mdp con progressiva, dolorosa ferocia nella carne viva del rapporto vampiristico tra l'intellettuale dandy sessantottino Alexander e la mantide Veronika (l'angosciosamente sensuale Lebrun). Libero e austero, a tratti insostenibilmente verboso, riscattato da un ineludibile autenticità.
Ragazzo parigino, dopo essere stato lasciato inizia un rapporto a tre. La sceneggiatura, di ampio respiro, è strutturata su lunghi dialoghi per descrivere la parabola amorosa. I contenuti sono espliciti ma non provocatori (salvo quando si parla d'aborto) grazie a una autenticità nella recitazione che va oltre la nouvelle vague. Léaud non ha gran fisicità ma guida per buona parte il terzetto. L'ultima parte mette in luce l'illusione della libertà sessuale di fine anni Sessanta accusandola di essere vuota.
MEMORABILE: La ricerca del Tampax; Il rapporto a tre; Il monologo della Lebrun.
Un film interessante di un outside del cinema francese, Jean Eustache. Bellissimo il Quartiere latino di Parigi nelle riprese dal vero nel 1972. La movimentata vita sentimentale di un giovane povero ma colto e intellettuale interpretato dall'attore simbolo della Nouvelle Vague. Uno stile di regia che ricorda quello dei primi film di Rohmer. Il film ha solo due difetti: il primo, la lunghezza (dura ben tre ore e quaranta minuti) e il secondo un linguaggio molto volgare, soprattutto nella seconda parte. Per il resto è un film filosofico e poetico.
Jean Eustache gira un film su una generazione, quella dopo il ‘68, libera (almeno esternamente) da tabù e dedita ad abbracciare la libertà sessuale in netto contrasto col passato. Lo fa con uno stile che supera la Nouvelle Vague (con un attore simbolo di quella corrente): prolisso, innaturale, debordante come un fiume. La necessità di superare il modello borghese a tutti i costi alla fine sembra ingabbiare uomini e donne per farli ritornare al punto di partenza, alla ragione di tutte le cose.
MEMORABILE: Il giovane protagonista che continua a camminare sul proprio letto con gli stivaletti.
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Digital ebbe a dire: Buiomega71 ebbe a dire: Digital ebbe a dire: Stesso caso di Morte al telefono, temo.
Quello, poi, non e arrivato nemmeno da noi...Ma da dove saltano fuori stì titoli "italianizzati"? Qualche raro passaggio tv ?
Che sappia io Morte al telefono non e mai uscito da noi (cinema e home video), poi passaggi tv su reti private non saprei
Questo di Eustache, al contrario, e sempre circolato con il titolo originale (e MAI in italiano) anche in una messa per Fuori Orario. Ma anche se fosse, così, e tradotto pure in modo scorretto.
Lo vidi di notte su Rai3 in Fuori Orario, se poi quelli della trasmissione l'hanno tradotto così non saprei.Ricordo che era presente il titolo in sovrimpressione.E' passato troppo tempo.