Fuori dalla Hammer quel che rimane è la pauraInquietante e angosciosa versione "aggiornata" del mito del dottor Jekyll & Mister Hyde, con un Moore inedito e smarrito, stretto nella morsa del complotto kafkiano sul tema del doppio e della paranoia
Dopo il William Wilson di Poe/Malle/Delon di
Tre passi nel delirio, anche il futuro agente 007 (citato pure in un divertente injoke antelitteram dallo stesso Moore in una delle tante riunioni aziendali) si ritrova minacciato da se stesso, con un sosia che non solo mette in pericolo la sua integrità mentale, ma minaccia pure di portarle via la famiglia (da incubo il pre finale, quando i nodi del mistero vengono al pettine, e Moore si trova a faccia a faccia con Moore, con la moglie, i figli e il domestico spagnolo, e il tutto assume tratti surreali e incubotici, soprattutto quando la moglie non lo riconosce più-geniale la trovata della cravatta e del vestito nuovo, che saranno fatali per il povero "vero" Moore-), per poi risolversi in un finale che sfocia nell'horror, tra inseguimenti d'auto, riverberi lisergici (la fotografia baviana multicolore) e immagini distorte, moltiplicate e grottesche che appaiono nello specchieto retrovisore in frantumi, sino a infrangersi oltre le sponde del Tamigi.
Inizio da cardiopalma, dove Moore, improvvisamente, sull'autostrada, da di matto e guida come un folle attraverso il traffico, andando ad impattare violentemente con la sua Rover (destino crudele e infausto vuole che Basil Dearden morirà, un'anno dopo, in un incidente stradale proprio sull'autostrada, in un sinistro non dissimile da quello che ha messo in scena), poi comincia la discesa verso l'angoscia (Moore è stato giudicato clinicamente morto, per pochi secondi, dopo l'incidente) sul lavoro e negli affetti (spionaggio industriale nel primo caso, spupazzandosi la bella e sexy fotografa Julie nel secondo) ma che però lui non ricorda assolutamente nulla e comincia l'ossessione dell'uomo che scivola pian piano nel baratro della follia.
Gestito ottimamente da Dearden, questo piccolo e bizzarro mistery inglese si ammanta di atmosfere da thriller italico del periodo (vedere la sequenza a casa di Julie con il giradischi che non sfigurerebbe in un giallo alla Ercoli), con un black out mentale (Moore viene accusato di cose che lui non ha mai fatto o meglio, non ricorda assolutamente) non dissimile da quelli del povero Colin Trafford ne
Il caso Trafford (in Thomas una dimensione parallela, in Dearden un doppio di se stesso), fino ad una realtà che supera i confini dell'impossibile.
Rallenta un pò il ritmo nelle sedute aziendali, ma la crisi coniugale del protagonista è ben resa, così come la morsa di disperazione che lo attanaglia per tutto il film (dove bastano piccoli particolari a amplificare il disagio: una sigaretta accesa nel portacenere, un regalo costoso fatto all'amante, il collo della cravatta, delle fotografie compromettenti).
I fiammiferi spezzati con le dita, la misteriosa Lamborghini parcheggiata fuori casa, la repressione vittoriana del perbenismo tanto cara a Stevenson (il Moore borghese e irreprensibile contro il Moore cinico e libertino) e l'allucinato confronto finale costruiscono un noir che sconfina nella fantascienza, abilmente condotto da un regista dal polso fermo che regala intensi momenti visionari.
Come sceneggiatore non accreditato il futuro regista de
La fabbrica delle mogli