Forse si voleva rappresentare la difficile realtà imprenditoriale in questo periodo di crisi, o la deriva che ne può scaturire. L’analisi è comunque scarna: il contesto lavorativo, sociale e matrimoniale vengono disegnati a larghi tratti e tra i protagonisti non c’è alchimia. Favino ci mette il suo, mentre la Crescentini è melodrammatica. La fotografia livida incornicia un quadro freddo, che non scalda la visione.
Forse è più originale di altri la prospettiva di Montaldo sulla crisi economica, che è quella padronale e che si mescola con problemi attinenti alla vita privata del protagonista. L'industriale è pertanto un lavoro sfaccettato, che fa intravedere sotto la luce livida di una bella fotografia (in una Torino quasi metafisica) un'Italia in pieno disfacimento morale senza quasi possibilità di redenzione. Pierfrancesco Favino, bravissimo, dona al suo protagonista una dolenta umanità ma anche una forte connotazione "italica" in senso non positivo.
Non male questo film sulla crisi imprenditoriale diretto dal veterano Giuliano Montaldo, regista dotato di doti notevoli. La tematica è trattata con originalità e questo dà gusto; i temi della vita privata dell'industriale protagonista non danno alla noia, anche perché sono in linea con la tematica principale della pellicola. Bravissimo Pierfrancesco Favin, nell'interpretare, nel caratterizzare e nel dare un'impostazione psicologica al protagonista del film.
La violenza e la crudeltà della crisi vista da un altro punto di vista, quello dell'imprenditore, uno con i soldi, con una bella moglie e una casa di lusso ma anche uno per cui il lavoro e la fabbrica rappresentano tutto. E quando le cose vanno davvero molto male il mondo gli crolla addosso. Favino è bravo come al solito, anche se non è troppo a suo agio con la cadenza torinese. Torino, invece, con questo bianco e nero quasi surreale, è splendida.
Fotografato in modo particolare (e alla lunga non so quanto sia una scelta felice), il film racconta la crisi economica personalizzandola sul personaggio di Favino, che offre una discreta prova coadiuvato da un parco attori funzionale e ben assortito. Non aspettatevi sorprese (se non alla fine) ma una raffigurazione efficace che non approfitta del facile cronachismo e rimane sufficientemente pungente.
L'avvento della crisi economica con le conseguenti difficoltà per un'officina meccanica. Colori rarefatti inquadrano la città di Torino, evidenziando anche un disfacimento morale del protagonista, un valido Favino. Tutta la narrazione appare intrisa di un tono plumbeo validamente associabile alla reale situazione italica.
Pellicola troppo artificiosa, a partire dalla fredda scelta cromatica, che appare eccessiva, nonostante sottolinei la negatività di una situazione senza possibilità di soluzione (una ci sarebbe, ma il protagonista è troppo orgoglioso). La storia dell'industriale che fa di tutto per salvare l'azienda poteva essere un buon pretesto per un film interessante, che spiegasse i mille ostacoli che un imprenditore deve superare per ottenere qualcosa. Ma qui la si butta sul disastrato rapporto lui-lei, esposto anche in maniera banale. E il dramma finale non fa che confermare la mediocrità dell'insieme.
MEMORABILE: La madre alla figlia: "Petto in fuori e pezze al culo!"; Al protagonista, ormai indebitato fino al collo: "Dimmi, fin dove è arrivata la merda?".
Ambientato nella bella cornice di Torino e immediati dintorni, il film è tristemente attuale, trattando di un’azienda in difficoltà, senza futuro. Nicola (Favino) è cresciuto con principi all’antica ma non ha personalità, non riesce ad adattarsi ai cambiamenti e la crisi professionale si incrocia con quella personale con tragici risultati. Trama piacevole; forse stona la scena con i giapponesi, chiaramente irreale, però di effetto scenico e utile a risollevare un clima altrimenti troppo plumbeo. Buona la fotografia.
Non si sa dove voglia andare a parare questo film dalle tonalità fredde. Si parte con l'imprenditore in crisi, si prosegue con una storia di tradimenti. Alla fine si può forse parlare di un mediocre thriller di cui si può fare tranquillamente a meno. **
Visioni di crisi di un piccolo industriale d’oggi: quella economica che lo porta sull’orlo del fallimento e quella sentimentale con la moglie (con finale prevedibile). Oscillante tra intento di analisi sociale e racconto esistenziale, con alterna efficacia e scelte discutibili (come quella, gratuita, della fotografia desaturata), il film scivola in più punti verso una concezione da soap, a cui si richiama tra l’altro il mediocre livello della sciatta recitazione dei personaggi minori. Ma gli spunti sono interessanti e Favino si destreggia bene.
La crisi economica - homo homini lupus capitalistico, precariato e rischi di chiusura delle fabbriche - si lega alla crisi dell'uomo, visto nella duplice prospettiva di imprenditore sull'orlo del fallimento e di coniuge allo sfascio. Nome storico del cinema italiano, Montaldo impone serietà e controllo: il protagonista Favino esprime i dubbi, manda giù i magoni e piange le lacrime amare del suo personaggio rispettando appieno queste due parole d'ordine, mentre la Torino in grigio alle sue spalle lo avvolge come un sudario. Tra gli operai della fabbrica compare il critico Steve Della Casa.
MEMORABILE: I paterni rimbrotti del vecchio operaio a Favino; l'acquisto dei buonissimi (e carissimi) gianduiotti Streglio, ditta di lì a poco in crisi...
Un (quasi) "instant movie" sulla crisi che in realtà fotografa perfettamente lo stato di salute del cinema italiano sempre più alla portata delle fiction tv. La sceneggiatura è terribilmente anacronistica, non aggiornata con ciò che accade nei palinsesti italiani (o forse proprio per non osare troppo, in perfetta linea con lo schermo da salotto). Si conclude la visione con la sensazione di aver visto una long version di Centovetrine, però più laccata. Simpatico l'unico momento di cinema (i giapponesi), anche se (forse) mutuato da Sordi.
Lodevole nelle intenzioni, ovvero rappresentare il mondo odierno come predominanza assoluta e senza speranza del denaro e del potere sull'etica del lavoro e la dignità dell'individuo. Meno nel risultato finale, dove un certo schematismo dei personaggi (si veda solo la madre cinica contrapposta ai "bravi" giovani) e dialoghi eccessivamente didascalici e affettati lasciano una sgradevole senzazione di fiction televisiva.
Non è niente di più di una pretenziosa fiction televisiva, con Favino - al solito - bravo. Però anche l'idea del colore "sbiadito" (ovvero del bianco nero con qualche nota di colore ogni tanto) non è per nulla originale. Torino è la solita Torino (ci sono anche i gianduiotti, tanto per non farsi mancare nulla). La suocera è la solita suocera ricchissima; la moglie, invece, è integra e quasi santa. E lui, il povero industrialotto, pieno di orgoglio e buone intenzioni, combina solo disastri e non riesce nemmeno a fallire decentemente.
Prospettiva inedita e coraggiosa - specialmente in virtù della propria storia artistica - quella adottata dal tardo Montaldo, che trasforma un industriale travolto dalla crisi economica nel prototipo dostoevskijano di uomo superfluo (poco più di una marionetta che si muove nell'universo plumbeo e opprimente dei precedenti Demoni di San Pietroburgo). Molto buoni i due protagonisti, la cui alchimia si fa vieppiù evidente nella sequela di rivelazioni che rovesciano la prospettiva positiva fatta intravedere nel prefinale.
La crisi economica e quella della famiglia affliggono allo stesso modo il protagonista, rampante ma stretto dai problemi finanziari e da un moglie che non ama più. Ultimo film di Giuliano Montaldo, è intenso e interessante, con alcuni spunti umoristici notevoli (la truffa dei giapponesi) e un approccio molto serio alla crisi e ai problemi che questa comporta. Ottima interpretazione per Favino, Della Casa come operaio rivedibile.
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