Suggestiva immersione nel folklore e nel mistero arcaico delle credenze di quell'Italia superstiziosa e ancorata alle leggende tanto cara ai Fulci, agli Avati e ai Rondi
Il giovane regista napoletano Roberto Bontà Polito getta una luce sinistra sul piccolo paesino di San Lupo (nel beneventino), e sulla leggenda della Janara (sorta di fattucchiera che viveva nei boschi e gettava fatture e malocchi, rimasta incinta da forze maligne venne messa al rogo dalla sacra inquisizione, maledicendo gli abitanti di San Lupo), creando un mix affascinante tra la fiaba nera e il più classico dei "witch movie"
Polito evita accuratamente effettacci e scivoloni nel macchiettistico, per concentrarsi sull'atmosfera maligna e occulta che regna nel paesino, donando un punto di vista prettamente personale e quasi intimistico della paura.
Tra follie pandemiche di una folla inferocita pronta al linciaggio, cerimonie "esorcistiche" sul bordo di un fiume, invocazioni rituali, maternità messe in serio pericolo (la Janara rapisce i bambini-o meglio, se li porta con sè cadaverelli- e si avventa su donne gravide, cercando quella gravidanza perduta che gli abitanti le tolsero nella notte dei secoli), un paesino dove i bambini spariscono senza lasciare traccia (un pò come nei
Bambini di Cold Rock), ma che tornano sotto forma di spettri inquieti nelle allucinazioni premonitrici della protagonista (come nel secondo della
Strega di Blair, dove la Janara può apparire come la "cugina" italiana), fino all'apparizione finale della Janara stessa, che si strugge in lacrime dannate (colandole anche dal naso), condannata a cercare il suo bambino per l'eternità, in una manifestazione baviana con il tocco di Sergio Stivaletti e chiusa inaspettata quando agghiacciante sul visore di un baby call
Polito torna a rivangare i fasti del nostro cinema gotico, con un tocco di realismo, di quella fetta oscura del bel paese di cui
L'arcano incantatore,
Non si sevizia un paperino e
Il Demonio sono stati i numi tutelari, tra leggende, fattucchiere, maledizioni, sospiri, lamenti rochi e paure radicate dettate dall'oscurantismo del passato, bambini che scompaiono e la donna vista come portatrice di male e sventure
Non tutto fila liscio (parentesi da fiction come il marito della bruttina protagonista che se la fà con la sorella più bona e spregiudicata, il prete con ridicolo slang inglese stile la Tassoni del
Bosco, le pasticche messe nel tè senza un reale perchè), ma nonostante un budget discreto il regista riesce a creare un aurea piena di richiami sinistri e maligni, con squarci onirici (gli incubi di Marta, i bambini fantasma) e la costante presenza ostile della strega, nelle fotografie , nell'aria opprimente che si respira a San Lupo, nell'odio medievale della popolazione che vive nel terrore e che sfocia nel linciaggio, tra fughe nei cunicoli, case maledette diroccate nel bosco e riti occulti.
Buona prova del cast e ottimo l'apparato tecnico (dalle musiche di Sandro Di Stefano alla fotografia di Roberto Lucarelli) con le suggestive location di San Lupo che stanno a metà tra i Taviani e i paesini lucani fulciani.
Il nuovo cinema di genere italiano ripesca le sue origini, e il risultato e tutt'altro che disprezzabile
La canzone della Janara, sui titoli di coda, è cantanta da Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino