Un grande classico del cinema francese a cavallo tra le due guerre (anzi, agli albori della Seconda), interpretato magnificamente da un Jean Gabin che, con la sua aria risoluta e malinconica, lo caratterizza fortemente. Un melodramma mai sdolcinato (musiche a parte), moderno nella sua concezione e anche nella struttura: si apre sull’omicidio che chiuderà il film, con un uomo che cade dalle scale di un condominio colpito a morte da Francesco (Gabin, François in originale), il quale si barrica nel suo appartamento e rifiutandosi di farvi entrare la polizia subito chiamato dai vicini. E mentre è lì, solo, Francesco ricorderà i suoi ultimi giorni, trascorsi dividendosi tra Francesca, una fioraia...Leggi tutto di cui è innamorato (Jacqueline Laurent, amica di Jacques Prévert, co-autore della sceneggiatura) e Clara, una donna più matura (Arletty, tagliata dalla censura una sua scena sotto la doccia) incontrata la sera in un locale. Su entrambe grava però la presenza di un verboso e ricco intellettuale (Jules Berry), innamorato da tempo di Clara e presunto zio di Francesca, alla quale dice di tenere molto. Il lungo flashback si interrompe di tanto in tanto per mostrarci Gabin chiuso nell'appartamento mentre sposta un armadio davanti alla porta o riflette fumandosi una sigaretta. Di grande classe il bianco e nero, che illumina con ottimi chiaroscuri la capitale francese, gli squarci di periferia... Dialoghi intelligenti, mai banali, recitati a mezza voce (da Gabin, soprattutto) o con più foga (da Jules Berry, che maggiormente nell'ultima parte concorre a far salire la tensione). Tra la gente in strada si riconosce un giovanissimo Bernard Blier.
Perla del "cinema de papa", che non era così male come i ragazzacci dei Cahiers du Cinema lo dipingevano polemicamente. Certo l'usura del tempo qua e là si avverte, e anche i dialoghi dell'un tempo popolarissimo Prevert non sono più freschissimi, ma di Alba tragica resistono le qualità stilistiche, in particolare la fotografia, che anticipano e influenzano il miglior noir americano degli anni a venire. E Gabin è ineccepibile. Classico. Omaggiato da Godard in Prenom Carmen e nel recente Espiazione.
Grande classico del cinema francese, a distanza di oltre 60 anni dalla sua realizzazione, appare inevitabilmente un po' datato. Ciò nulla toglie al valore di quest'opera altamente drammatica che ha il suo punto di forza nella bella regia di Marcel Carné, nella magnifica fotografia che presenta più di una similitudine nei confronti di capolavori del neorealismo italiano ed infine nell'ottima prova del grande Jean Gabin.
Incredibile pensare che questo film abbia più di 80 anni. Nonostante qualche elemento ovviamente datato, mantiene una notevole freschezza grazie soprattutto al protagonista Jean Gabin che ci regala un personaggio assolutamente moderno. La sua storia d'amore divisa tra una semplice ragazza e una donna esperta si riempie di dubbi e suspence, per concludersi in modo tragico. Bianco e nero d'altri tempi, durata del film perfetta.
Davvero tragica l'alba del protagonista del film, conteso da due donne così diverse, nella sua disperata ricerca di conferme d'amore. A ben guardare, la storia descrive la fragilità estrema di un uomo incapace di dare risposte ai suoi tormenti interiori o superare le prove frustranti che a volte la vita presenta. Finale drammatico, tutt'altro che nel suo posteriore remake "La disperata notte". Non esente da scivoloni melodrammaticamente esasperati.
Rischiava di essere solo un melò francese di periferia, ma si eleva al rango di tragedia grazie principalmente a due fattori: da un lato l’efficace regia di Carné che, nonostante qualche simbolismo in eccesso (l’armadio, i fiori, l’orsacchiotto), tiene alta la tensione drammatica (magistrale in tal senso la situazione di assedio nella camera e l’uso dei flashback); dall’altro l’interpretazione di Jean Gabin, perfetta maschera di esistenzialismo tragico.
Il sole sorge sulla Parigi dei vinti, inesorabile e fatale. Barricato in un appartamento, François è assediato dalle contraddizioni del suo cuore: l'amore romantico e l'amore sensuale. Mentre Carné chiede ai suoi interpreti di trasfigurare nell'allegoria di se stessi, dirotta con rigore geometrico l'afflato tragico verso la dignità degli umili. Prévert scrive i dialoghi e dà fondo a tutto il coté sentimentale del racconto. Gli occhi azzurri di Gabin trapelano dal limpido bianco e nero di Curt Couran. Memorabili Arletty e l'untuoso Berry. Uno di quei film che fanno battere il cuore cinefilo.
Classicissimo del cinema francese, ovviamente di buona fattura e solido nella costruzione, ma leggermente deludente anche per ciò che riguarda i dialoghi del grande Prévert che non sono così belli e poetici come ci si aspetterebbe. Ma in generale è un po' tutto il film che mostra la corda a causa probabilmente dei quasi settantacinque anni che lo dividono da noi. Per questo alla fine c'è un pizzico di delusione. Buona la prova dei quattro protagonisti. Di sicuro un buon film.
Il destino del personaggio di Gabin è già segnato dall'inizio. Ogni suo atto (a cui assistiamo in flashback) è, perciò, come il ricordo di un condannato a morte: di qui la nostra empatia. E tale ineluttabile condanna che su di lui grava è assieme politica e sociale (la salute minata dalla sabbia della fabbrica). Carné e Prévert delineano, quindi, un romanticismo anticlassico, proletario; una sorta di poetica ballata degli ultimi, disperata e senza redenzione.
Dopo aver ucciso un uomo, un operaio si barrica nel suo appartamento in attesa dell'alba... Il realismo poetico di Carné e Prevert racconta la storia dell'amore fra due persone dal cuore semplice e, a parte l'incipit che anticipa l'esito tragico, la narrazione è lineare, i personaggi definiti sin dal loro apparire, per cui il film risulta un poco statico. Nonostante la grande prova di Gabin, più che i due innamorati risultano interessanti le figure di contorno: Arletty, amante disillusa, e Berry, cinico e baro come il destino. Opera pregevole ma non all'altezza dei capolavori successivi.
Capolavoro del realismo francese anni Trenta e grande trionfo personale per Jean Gabin, che resterà legato all'immagine di quel personaggio per tutta la sua lunga e fortunata carriera. L'idea di un uomo solo contro tutto e contro tutti e capace di vivere con un'intima dignità questa situazione è quasi la risposta europea al self-made man raccontato da tanti film americani.
Un omicida barricato in casa è assediato a singhiozzo da una polizia dalle strategie decisamente sui generis, come se questa sapesse di dovergli lasciare lo spazio tecnico per i flashback. È un operaio sabbiatore rimasto intossicato dal lavoro e da due amori: uno platonico per una ragazza che gli dà del voi e uno carnale al quale rivolgersi alla bisogna. Datato, dall'intreccio spesso arbitrario e poco approfondito, conserva comunque fresca la sua forza poetica grazie ai simbolismi. Un fascino immaginifico molto francese che viaggia ancora nel solco tracciato da Victor Hugo.
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