Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Quello con Demy è sempre un raffronto tortuoso perché significa fare i conti con un'idea di cinema che subliminalmente allontaniamo giudicandola astrusa ed efebica e che invece la visione ci restituisce struggentemente nostalgico, un tempo irrimediabilmente perduto. Così qui l'artificio del canto, la saturazione dei colori, le scenografie "musicate" da Legrand, la composizione manierata di ogni inquadratura evocano la bruciante concretezza della guerra d'Algeria, della povertà, delle differenze sociali, quella stessa ineluttabilità del destino che c'è negli sguardi di Deneuve e Nino.
Uno slasher che abbraccia con audacia il genere, pur sovvertendone alcune convenzioni. Paul Etheredge gioca con tensione e stile, offrendo una rappresentazione queer che non è mai caricaturale, ma autentica. Non reinventa il genere (si erano già visti anche prima thriller a tema queer, come Cruising di William Friedkin), ma lo rinnova con dedizione. Violento finché uno vuole, ma anche ironico e consapevole. Un piccolo cult che andrebbe riscoperto.
Cronenberg mette in scena un thriller essenziale ma ricco di tensione morale. Viggo Mortensen è straordinario: con sguardi, silenzi e improvvise esplosioni di violenza costruisce un personaggio doppio, ambiguo, enigmatico. La sua interpretazione, istrionica e misurata, guida un racconto che parla di identità, colpa e redenzione. Tra passato, rimpianti e ricordi, è un noir che lascia il segno, elegante nella forma e profondo nel contenuto.
In questo sequel col contabile autistico (Affleck), che all'occorrenza mena forte, più che lui, a dare almeno un perché all'operazione filmica, altrimenti piuttosto superflua, viene in soccorso il fratello, che non si sente apprezzato, vorrebbe un misero grazie e, soprattutto, è solo come un cane. Il minutaggio è eccessivo; e non tutto è indispensabile per lo sviluppo della narrazione. Questo fa sì che si arrivi all'epilogo sbuffando qua e là. Nel complesso è vedibile, ma anche la killer e la sua evoluzione (non certo tra le più credibili) lascia un po' il tempo che trova.
Il documentario racconta la storia della famosa marca di moda American Apparel dal suo massimo splendore al suo declino, e lo fa tratteggiando la figura del suo carismatico e controverso CEO Dov Charney. Quello che ne emerge, attraverso le dichiarazioni dei suoi dipendenti, è un quadro poco rassicurante fatto di tante aspettative che nel tempo sono state disattese per colpa della personalità narcisista e distruttiva del suo fondatore. L'opera mostra il lato più nascosto della moda e dei suoi personaggi, ma ha il difetto di presentare solo un punto di vista, ovvero quello dell'accusa.
Nel suo vagabondare incessante, il massaggiatore cieco giunge in un villaggio tiranneggiato da un boss il quale, per raggiungere i suoi fini, si serve di una banda di criminali fuggiaschi. Quarta regia per Yasuda in questa diciottesima avventura di Ichi, che poco aggiunge al personaggio e alla sua "serialità". L'episodio si segnala per una certa crudezza nei combattimenti (con Katsu spesso dolente e insanguinato) cui fa da pendant una analoga rozzezza nella linea narrativa. Si salva per la presenza, nei panni di un medico che vorrebbe redimere un figlio "dannato", del grande Shimura.
Il colonnello Orsini (Servillo) arruola al Nord volontari per la spedizione dei Mille. Comincia così, in pieno Ottocento, il secondo film che Salvatore Andò dirige portando sulla scena Ficarra e Picone insieme a Toni Servillo dopo LA STRANEZZA, che raccolse ottimi consensi soprattutto da parte della critica. Di nuovo la Sicilia quindi, eletta qui a terra promessa per lo sbarco dei garibaldini. Il palermitano verace Domenico Tricò (Ficarra) e il falso veneto Rosario Spitale (Picone), reclutati da Orsini per combattere...Leggi tutto con Garibaldi (Ragno), ancora non si conoscono, ma sulla spiaggia di Marsala, spaventati dalla battaglia, condividono la vile fuga incontrandosi casualmente in una caverna e proseguendo, per la medesima strada, da disertori.
Domenico è intenzionato a rivedere la sua donna dopo dieci anni di lontananza, ma la sorpresa è amara: sposatasi col di lui fratello, quella ne ha già avuto due figli. Domenico capisce che non ha più un posto nella vita dell'ex fidanzata e inizia a vagabondare per le terre sicule senza una meta, in cerca di cibo e di una sistemazione insieme a quel suo strano compagno d'avventura, ancora più solo di lui. E così, mentre da una parte Garibaldi e Orsini progettano il da farsi scontrandosi con l'esercito dei Borboni, dall'altra i due ex combattenti si rifugiano in un convento (Rosario si finge sordomuto per farsi accettare) per poi proseguire altrove la loro ricerca di una fortuna che pare non arrivare.
L'incrocio con le truppe garibaldine sarà inevitabile, con un Orsini che aveva in precedenza dimostrato di non sopportare i disertori. Si apre una nuova fase, nella vita di Rosario e Domenico, sempre ai margini e oggetti impazziti da collocare in una ricostruzione storica per il resto invece meticolosa e ricca, perché le scene di massa sono imponenti, la fotografia di gran lusso, le location capaci di restituire la caratteristica solarità della regione. L'impatto visivo è insomma appagante, la patina da cinema di qualità che riveste il film evidente, l'intento quello di mostrare la Sicilia e i suoi uomini attraverso un ritratto di ampio respiro che ne tragga l'essenza. Il risultato, esteticamente impeccabile, lascia però molti dubbi sul versante legato alla narrazione, con una sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) piuttosto dispersiva, che fatica a dare la necessaria tridimensionalità ai personaggi e dipinge Garibaldi senza riuscire a restituirne l'importante statura.
Il ricorso al siciliano stretto, inoltre, costringe all'imposizione dei sottotitoli in tutte le parti con Ficarra e Picone (di gran lunga le più numerose), mentre le loro incursioni sono molto meno divertenti dello sperato. Naturalmente non si puntava alla commedia, ma anche sul versante drammatico manca lo spessore che possa garantire il giusto grado di coinvolgimento. E se sulla bravura del cast nulla si può eccepire, sono i dialoghi e l'azione a funzionare poco. Fortunatamente l'ultima parte è in crescendo e il riscatto a Sambuca è una bella pagina di storia che viene riletta con gusto, prima di un lungo epilogo che, al contrario, concentra in sé molti dei difetti di un film prigioniero di una maniera che si fa talora oberante (soprattutto considerata la durata eccessiva di due ore e un quarto, che si fa indubbiamente sentire).
Si prolunga l'avventura giurassica che, dismesso il Park, da tempo prosegue con la variante "World", finora convincente solo nel primo episodio. Il ritorno però in sella di David Koepp, tra i più noti sceneggiatori hollywoodiani e autore del copione vincente dello storico numero uno, sortisce buoni risultati. Anche se va detto che non sono i dialoghi o il disegno dei personaggi il punto di forza del film, a rivivificare la saga sono qualche innesto ironico non disprezzabile e una storia ben organizzata.
Poi si sa, in lavori di questo genere il grosso lo fanno...Leggi tutto gli effetti speciali e soprattutto la regia, che ha il compito di valorizzarli a dovere massimizzandone l'impatto. Qui Gareth Edwards, già autore del più interessante capitolo di Star Wars degli ultimi anni e abile manovratore di mostri sovradimensionati nel GODZILLA del 2014, azzecca alcune delle scene più spettacolari dell'intera storia "giurassica", compreso un assalto acquatico del T-rex da lasciare col fiato sospeso.
Tutto comincia con i grandi progetti di una multinazionale farmaceutica, che ha scoperto come dal sangue di tre dei più grandi dinosauri "esistenti" si possa sintetizzare un farmaco in grado di salvare le coronarie a centinaia di migliaia di potenziali infartuati. Una scoperta sensazionale, che per essere tradotta nella pratica necessita, per l'appunto, del sangue estratto dalle suddette specie. Per ottenerlo, l'emissario dell'azienda (Friend) incarica una quotata mercenaria (Johansson) di raggiungere, insieme a un manipolo di stretti collaboratori tra cui egli stesso, la ristretta zona equatoriale dove ormai i dinosauri sono confinati.
La prima vittima che dovrà “donare” il sangue (estratto tramite siringone da sparargli nella pelle) sarà il mosasauro, il gigantesco mostro acquatico che già aveva impressionato tutti nel primo JURASSIC WORLD. Qui nuota nell'oceano, il suo ambiente, e l'attacco (preceduto da un altro alla barca a vela di una famigliola in vacanza composta da padre, due figlie e fidanzato della maggiore) ne svela le enormi dimensioni e la potenza distruttrice. Siamo al primo "livello" dei tre previsti, quello del mare, al quale seguiranno quello sulla terra (pertanto nella giungla alla ricerca dei mastodontici titanosauri) e quello - più breve - dell'aria, a fronteggiare una sorta di pterodattili dal becco sovradimensionato.
Gli scenari naturali favolosi ci portano in un mondo sempre più orientato al fantastico, nel quale i protagonisti si muovono come formiche a costante rischio. Tra la discesa da una rupe con un dislivello impressionante e il momento di "comunione" con gli enormi erbivori colti in teneri atteggiamenti da osservare dal basso con riprese che ne esaltano la grandiosità, poco conta seguire le dinamiche interne ai due gruppi salvatisi dalle acque: da una parte la famiglia affondata dal mosasauro, dall'altra gli sparuti componenti della spedizione “caccia al sangue”, in cui la mercenaria Zora Bennett fa comunella con l'immancabile scienziato ingenuone (Bailey).
Qualche concessione al cinema per famiglie (il dinosaurino "allevato" dalla bambina che lo tiene con sé nemmeno fosse un peluche) non danneggia troppo una sceneggiatura ben calibrata, senza guizzi ma sufficientemente intrigante, con la Johansson convincente eroina di turno. Il film insomma fa quel che deve e lo fa sfruttando intelligentemente i propri punti di forza, riuscendo nell'impresa di generare una tensione in più punti tiratissima, da autentico thriller, e tenendosi per il finale uno spaventoso dinosauro mutante che pare incrociato col mostro di ALIEN e che vediamo per la prima volta bene quando si palesa alle spalle di un elicottero di passaggio (occhio...).
Omaggio, rielaborazione, metacinema? Solo parole. Barriere da abbattere. Cattet e Forzani centrifugano tutto senza preoccuparsi di seguire una logica o una linearità che sovrintenda a quello che sembra dipanarsi quasi come un flusso di coscienza; è invece trasmissione di sensazioni, emozioni, colori, collegamenti mentali che uniti rimandano al cinema italiano (e minoritariamente europeo) dei gloriosi Anni Sessanta, in cui spadroneggiavano gli 007 in economia, le indagini tra giallo e noir sempre all'insegna di una professionalità impensabile, considerati i mezzi allora...Leggi tutto a disposizione.
E così, mentre nel mondo il cinema americano mieteva successi commerciali non avvicinabili, cinefili e critici fanatici si accorgevano che era l'Italia, il paese in cui si sotterravano tesori da scoprire e amare. Film che estremizzavano le tendenze più in voga (lo splatter, il sesso, la violenza, l'azione) cesellandole con la professionalità di maestranze straordinarie, accompagnandole con colonne sonore di raffinatezza inimitabile, cromatismi intriganti di direttori della fotografia di grande talento, scenografie ricchissime... Film di cui innamorarsi e che nel corso degli anni in tanti hanno celebrato.
Cattet e Forzani non esordiscono qui e già il loro percorso in questa direzione l'avevano intrapreso; in REFLET DANS UN DIAMANT MORT lo portano a compimento, confondendo chi guarda con una storia che si presta a surfare sulle onde del diversamente interpretabile, fornendo alcuni punti fermi da cui partire per poi travolgerci con un attacco frontale portato da immagini virtuosisticamente composte e fantasiosamente montate. Il lavoro certosino che conduce gli autori a studiare quasi ogni fotogramma alla ricerca di soluzioni visive d'impatto, che arrivino a mescolare l'immaginario di allora in un elettrizzante bombardamento di suggestioni, a tratti lascia di stucco.
L'estetica è di qualità sopraffina, l'avvicinamento a stilemi precisi viene realizzato con evidente padronanza della macchina da presa attraverso l'appropriazione di un intero universo cinematografico fin dalla scelta come protagonista di Fabio Testi, il quale, per quanto sostituito nella sua controparte giovanile da Yannick Renier, resta un'icona di quegli anni indimenticabili. Lo troviamo in un lussuoso albergo della Costa Azzurra a osservare le morbide curve di una ragazza che siede in spiaggia poco più avanti di lui e che poi scompare. E' la scintilla che, innescando un incessante bombardamento di flashback agganciati con gusto al presente, fa esplodere l'azione.
John Diman/Testi ricorda di quando era un agente segreto, di quando cacciava la malvagia Serpentik (la Satanik di Vivarelli è citata apertamente nel look) e si lanciava in avventure travolgenti, uccideva e fuggiva, cambiava maschera tuffandosi nel pericolo. Tutto vero? Siamo sicuri? Lo scopriremo; ciò che conta è la debordante messa in scena, che saccheggia musiche splendide dei nostri maestri di allora (Morricone ma non solo) lasciando che Testi e Renier parlino in italiano (Renier in modo buffo con accento straniero, il che stona un po' con l'origine italiana del personaggio) in un'alternanza che però vede il francese come lingua ampiamente più utilizzata (il film è in gran parte sottotitolato).
Rispetto al passato l'operazione recupero è attuata con maggiore consapevolezza, associata a un desiderio evidente di rompere quanto più possibile gli schemi anche a costo di apparire pedanti e ripetitivi. Se si accetta di entrarci (e non è da tutti), il gioco vale la candela, perché sono ottanta minuti di mirabilie e incroci funambolici tra suoni (studiatissimi) e immagini che nell'ultima parte svelano il trucco costringendoci a riconsiderare l'intera storia sotto un'ottica diversa. E' qui che il metacinema impazza e la fusione con fumetti, musica, fotoromanzo eleva ulteriormente il livello della sfida.
Non un film tradizionalmente inteso, più un'immersione in apnea (pochi i dialoghi) colpiti da frammenti scomposti di un passato restituito attraverso un linguaggio riconoscibile e seducente. Stilettate di violenza, graffi e maschere strappate, pelle lacerata, primissimi piani sugli occhi, zoom, lame abbaglianti, illusioni ottiche per un cumulo di suggestioni scandite da un montaggio che si fa protagonista assoluto, placandosi di rado quando Testi, elegante in bianco, con cappello, ci riporta negli stacchi a un presente proporzionalmente rallentato. Esercizio di stile, sterile e faticoso coagulo di input Sixties sparati in sequenza? Tutto vero, ma rispetto ad AMER, per esempio, il passo in avanti - quanto a gusto, fantasia, ricerca, tentativo di abbozzare una trama - si nota.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA