Schramm • 28/10/21 20:17
Scrivano - 7721 interventi ATTENZIONE CONTIENE SPOILER DI AMBEDUE I CANDYMANva ammesso la costa è stata coraggiosa e generosa nel cimentarsi in un remake-reboot-recap così ingombrante e impegnativo.
diciamo che ora come allora il vero problema filologico è che se si intendeva davvero dare un seguito alla vicenda per come questa finiva nel capostipite, andava intitolato
candywoman e avere (come da ultimativo passaggio di consegne) la madsen quale incarnato del boogey uncinato (possibile che sia sfuggito a tutti che è helen a diventare la sua degna succedanea?), che invece qua viene tutt'al più vocalmente flashbackuppata nel più ovvio dei modi (stranamente la di costa non rispolvera la non proprio ininfluente figura di trevor, così come vengono bypassati i personaggi di clara e bernadette).
a sparire sono anche i più stretti rapporti con quella metafisica mitopoiesi che si fa film per privilegiare la solita tiritera meta-testuale dell'artista che finisce conglobato dalla sua ossessione creativa (il diavolo probabilmente, col quale scendere a pericolosissimi patti); l'eternità cui candyman ambiva nel capostipite la trova qui nella metafisica dell'arte. quindi problema filologico risolto, candyman era del resto un pittore e in tal senso il film quadra il cerchio dell'ereditarietà, raddoppiata dal fin troppo propedeutico protagonista: tony, come tony todd, il candyman primigenio, ma anche come l'anthony-baby rapito da helen - e qui il film fa un salto significante, passando dall'injoke (vedi sotto) al pieno raccordo di continuità-contiguità narrativa, a dire il vero introdotta in un modo che faxa un po' tutto il resto del film (leggi: quant'è scontatissima da 1 a 2 la necrosi da shock anafilattico che farà di lui il neo-candyman?) ma anche cripticamente preparata nella più cool delle pensate (svelo l'arcano ai più "disattenti": il rpotagonista diventa candyman dopo che il suo nome di battesimo è ripetuto per la quinta volta nel corso del film)
resta caruccia sebbene tutt'altro che fresca di giornata cinematografica-teratologica la trovata delle vittime che possono scorgerne il solo riflesso, in fondo già allora il nostro aveva più di un punto in comune con la creatura di stoker: tutto il resto, dal valore metastorico del sangue quale ciclica fonte rigeneratrice ai discorsi sulla necessità del male quale propulsore storico-esistenziale passando per la valenza carrolliana dell'alicesco oltrepassamento dello specchio, il film lo perde via via che la pellicola scorre, assieme a tutto quel romantico sehnsucht che faceva di candyman più una storia d'amore che d'orrore, un'opera che struggeva anziché inorridire o spaventare.
regista e sceneggiatore sembrano più interessati a svecchiarlo elevandone alla millesima il sottotesto politico, facendone un ipertesto (talvolta in antipatica zona
"ah, non l'hai ancora capita? attento bene che te la rispiego") che si infischia quasi completamente delle peculiarità poetiche di barker e dell'estetica sublime di rose, ipertesto che paradossalmente emergeva con più prepotenza nell'originale proprio perché là era ambiguamente alluso e accennato, e più abilmente amalgamato col mito e la leggenda.
se anthony da injoke diventa termine di ricongiungimento ed erede iconico, attorno a lui non mancano personaggi i cui nomi sembrano fungere sia da omaggio che da riferimento scavalcato - non a caso sono tutte vittime: clive è il nome del gallerista (ahah! e daje de stoccata biografica, per la serie forse non tutti sanno che barker oltre ad essere il papà del franchise è anche pittore - non stupirebbe scoprire che sono suoi i due baconiani quadri nella scena della lite tra anthony e la sua ragazza), la studentessa che evoca candyman con le amiche si chiama, ndovinanpo', helen.
ciò detto, pur nel suo privilegiare il tema della gentrificazione e annessa nemesi autoindotta (le vittime di questo candyman sono tutte caucasiche), non è un film sbagliato. checché se ne possa inevitabilmente confrontare all'americana, l'idea del fondo di leggenda che allaga la quotidianità, diventandone letale metafora vivente, è ancora vincente, l'atmosfera acchiappa ugualmente (a tratti suggestionando anche parecchio), il piglio drammaturgico è più che centrato, le coreografie delittuose elegantissime e outsider nel loro elidere anziché esplicitare e se anche, diciamo così, il film tende a restare al di qua dello specchio, rimirandocisi vanesio (chi di queste nuove generazioni digiune di barker/rose, nonostante i mòttespiego e i compiaciuti occhiolini ammiccanti a suon di puppetering,comprenderà davvero di chi-cosa si sta parlando?) e non commuovendo mai, ha il pregio di evitare tutte le scorciatoie tipiche dell'horror degli ultimi 15 anni e di giocare la carta della densità e della verticalità e oltre a essere di chilometricissima lunga migliore dei due infelicissimi sequel (non che ci volesse chissà quanto), tutto sommato segna un punto a favore dei reboot, inutili nel 97% dei casi, sorprendenti nel per il residuo 3%, anche se di questo pur azzeccto 3 non se ne sentiva chissà quale bisogno.
per me, pur senza stracciarmi le protettive vesti da apicoltore, promosso con riserve - diciamo che può assestarsi su un tre pieno, con una domanda in calce: che ne avrà pensato il buon clive?!
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