Un articolo sul film:
LO SPECCHIO E LA CANDELA: IL J'ACCUSE DI PETER GREENAWAY
Applausi a scena a aperta per il film di Greenaway, Rembrandt J'accuse, avvincente thriller storico-artistico che segna il ritorno del cineasta inglese al capolavoro di Rembrandt, "La ronda di notte", dopo il recente Nightwatching.
"Avere gli occhi non significa saper guardare". Il dito puntato su una (in)civiltà dell'immagine, che è in realtà una civiltà del testo è quello di Peter Greenaway che attraverso Rembrandt costruisce il suo personale J'accuse contro il cinema contemporaneo, testuale, povero, illustrato. Rembrandt e il suo capolavoro, la cosiddetta "Ronda di notte" (ma il nome è "postumo") diventa allora paradigma privilegiato con cui ridare valore a quella immagine che spadroneggia sulla contemporaneità imponendoci la sua paradossale dittatura del testo.
Se poter vedere non vuol dire saper guardare, allora per vedere bisogna imparare a guardare: l'immagine è quindi già sempre immagine - inganno, doppio gioco irriducibile e paradossale del cinema, vera e propria condizione di possibilità dell'arte cinematica. Candela e specchio, luce e inganno: se il cinema è luce che affiora dal buio è nello scarto chiaroscurale tra visibile e invisibile che si gioca la visione cinematografica stessa: vedere è allora già sempre vedere due volte, ripercorrere l'archivio, ovvero tornare già sempre all'origine, al cominciamento, all'archè dell'immagine iniziale. La ronda di notte diventa ronda di notte, o meglio, si disvela per quello che già è solo alla luce del percorso che ci ha riportati in ultima istanza a se stessa; il passo avanti è passo indietro, la svolta è tornante: i 30 misteri ripercorsi da Greenaway sulla tela del pittore olandese hanno senso solo se rapportati al trentunesimo. La spiegazione è tale in quanto inizialmente (e finalmente) dissimulata, ovvero mistificata. La ronda di notte è un J'accuse proprio perché dissimulata nel suo contrario, un semplice ritratto di milizia olandese ambientato in notturna (da cui il nome Ronda di notte, appunto - il nome stesso, testuale, è pura dissimulazione). Ma se l'immagine cinematografica è già sempre inganno e doppio gioco ecco che il dito d'accusa dipinto da Rembrandt non è che il dito d'accusa di Peter Greenaway e il Rembrandt J'accuse è in realtà il Greenaway J'accuse che forte risuona in controluce dell'indagine di ricostruzione del dipinto rembrandtiano. Tra le righe del discorso filmico di smontaggio/rimontaggio greenawayano (immagini (ri)tagliate, rimontate, sovrapposte, alterate, ricreate) si cela l'ulteriore paradosso della lettura dell'immagine: testo filmico, parole, grammatiche, particelle: vedere è leggere in ultima istanza, la frontiera è liquida e reversibile. Quei due occhi che ci guardano frontalmente, dritti negli occhi, dalla tela di Rembrandt (Rembrandt stesso e la figura del testimone/spione) si fanno in Greenaway sola cosa: chi lancia l'accusa è quindi allo stesso tempo colpevole, giudice e carnefice, mandante ed esecutore, vittima e testimone. Sul crinale di questo intrecciarsi di soggettivazione e de-soggettivazione (nel contemporaneo trovarsi dentro e tirarsi fuori dalla vicenda) si gioca e affiora infine la testimonianza in quanto tale. Testimone è colui che si assume una responsabilità nei confronti di ciò che è testimoniato, quella stessa responsabilità che si prende il pronunciatore del J'accuse: "sono io e solo io a prendermi la responsabilità di accusare". Sono le due facce della stessa medaglia; su entrambe si trova la stessa effige incisa, quella di Peter Greenaway.