Dopo la morte della moglie, un pastore protestante, perduta la fede, non riesce ad accettare l'amore di una maestra e ad essere un buon pastore per la sua piccola comunità di fedeli... Rigoroso nella messa in scena, gelida e spoglia, impietoso fino alla crudeltà nei dialoghi, il film in cui B. affronta direttamente e senza simbolismi il tema del silenzio di quel Dio invocato durante i rituali: un Dio che, se pur esiste, non è in grado di suggerire risposte né di far avvertire la sua presenza, e non lo ha fatto neppure di fronte all'invocazione straziata del figlio sulla croce. Intimo. intenso.
MEMORABILE: Il prete rinfaccia alla donna che lo ama cosa detesta in lei; Il discorso del sacrestano sulle vere sofferenze di Cristo
C’è solo inverno (dell’anima) nel devastato deserto in cui vive un prete, assordato dal silenzio di Dio che gli sta facendo perdere la fede. Nessuna luce per lui né per il fedele suicida, e neanche per la maestra atea che si rivolge a lui come a un dio. Un orizzonte gelido e disperato, scandito dal progressivo vuoto di persone in chiesa. Più che un’interrogazione sulla fede, è la sconfortata resa alla solitudine dell’uomo. Film dove le parole rimbalzano tra immagini divine senza che queste riescano a rispondere. Spietatatamente nichlista.
Abbandonati (o quasi) simbolismi e metafore dei film precedenti, il regista svedese si concentra sulla descrizione della realtà nuda e immediata. I dialoghi si prolungano e si intensificano, rendendo ancor più eloquenti gli sguardi e i volti. Un'opera affascinante su perdita (smarrimento?) della fede, incomunicabilità, amore rifiutato, solitudine, sofferenza. Assai risucito l'incipit in chiesa, che riprende con stile documentaristico azioni e reazioni dei vari personaggi.
MEMORABILE: La discussione sulla Passione di Cristo, analizzata nelle sue componenti fisiche e psicologiche.
La silenziosa parrocchia di Mittsunda, ricoperta da una spessa coltre di neve, come metaluogo significante della psiche del pastore Ericsson (Björnstrand): prostrato dalla morte della moglie e incapace di ricambiare l'amore della devota Marta (Thulin), ma soprattutto immobilizzato in un limbo di disperazione che più non contempla la fede in Dio. Messa in scena di un minimalismo protestante quasi ascetico, compensato da scambi dialogici e monologhi interiori piuttosto verbosi (la lettera di Marta). Potentissimo e disperato, ma visto nelle condizioni sbagliate può prostrare.
MEMORABILE: Non è un'ottima idea cercare di confortare chi vive con il terrore dell'atomica cinese commiserandosi per la perdita della fede in Dio.
E’ un dramma gelido come il contesto in cui prende forma, come le sensazioni che derivano dai protagonisti in balia di una crisi esistenziale e una frustrazione che convoglia tutta la sua forza nei pensieri di un sacerdote, che ripudia e non accetta il Silenzio di Dio; e di un abitante del villaggio sovrastato e consumato dalla depressione. Opera molto complessa, dalle varie sfaccettature e chiavi di lettura. Superbo utilizzo di luci e ombre che conferiscono alla fotografia di Nykvist uno splendore e un’atmosfera di rara bellezza.
La storia di un Pastore che ha perso la sua fede. Questa, in due parole, la trama di uno dei film più cupi del regista svedese... Opera ricca di dialoghi, cerca di mostrare anche per immagini il percorso dolente di un uomo che ha l'impressione che tutto quello che fa o dice sia totalmente privo di senso. Un dolore autentico, quello messo in scena da Bergman, che non può non scuotere lo spettatore più sensibile. Pur essendo un film sul "silenzio di Dio" emoziona e si lascia vedere con grande facilità.
Notevole, anche se è uno di quelli che più si avvicina al clichè caricaturale del "film alla Bergman", inteso come esercizio sado-maso da cineclub con le sue cupezze e i suoi rigori. Il tema del resto non è lieve, ma come sempre più ancora della sostanza a rapire è la forma, di arcigna, meticolosa purezza (grandissimo lavoro di Sven Nykvist). Max Von Sydow ha la maschera giusta per il ruolo. Da vedere, ma quando si è su d'umore.
Bergman pone quesiti etici di alto livello senza perdersi in complicati arzigogoli filosofici, ma andando dritto al cuore del problema. La perfezione formale è quella solita del regista svedese, raggiunta senza ricorrere ad arditi tecnicismi, ponendo invece come linea guida l'equilibrio nella composizione delle inquadrature. La forza emozionale dell'opera è dovuta anche all'intensa performance dell'intero cast: Björnstrand incarna perfettamente il disagio e il turbamento dell'uomo che tenta di rimettere in discussione tutta la sua esistenza. Fotografia cupa e ombrosa.
Pastore di una piccola comunità è smarrito dopo la perdita della moglie. Bergman tocca grandi temi: la fede che vacilla, la consolazione da una donna atea, la minaccia della bomba atomica. Film senza speranza nel quale i dialoghi sono asciutti e sinceri, al limite del brutale. Solita grande fotografia e studio delle inquadrature da scuola del cinema. Anche le fasi durante la messa danno enorme importanza al rito religioso e una conseguente assenza di risposte. La Thulin fa un grande monologo.
MEMORABILE: La lettura della lettera; Il Cristo di legno a pezzi; Il suicidio.
Il film si discosta di poco dai classici canoni del cinema di Ingmar Bergman: pochi dialoghi ma incisivi, fotografia incentrata sui volti e le loro emozioni, cripticità estremizzata all'eccesso, cosa che rende anche questo film di difficile digestione per chi non ama il regista svedese. Ma per chi lo apprezza sarà un'ottima occasione. Stavolta i temi su cui la pellicola è incentrata sono la sofferenza di Dio e il dubbio sulla sua esistenza, che qui ha il volto tirato di Gunnar Bjornstrand. Molto difficile ma, come sempre quando c'è di mezzo Ingmar Bergman, estremamente affascinante.
Riflessione sull'esistenza di Dio, amore non ricambiato e malessere depressivo, sono soltanto alcuni dei temi trattati dal maestro svedese in quest'opera, che nella sua breve durata racconta una giornata non facile di un pastore protestante svedese alle prese con dilemmi profondi. Bjornstrand e la Thulin regalano due performance memorabili, Von Sydow in una piccola parte riesce ad essere glaciale. In pochi spazi, tra strette mura, Bergman estrae la profondità immensa di questi personaggi tormentati tutti da qualcosa di distruttivo. La fotografia è semplicemente stupenda, come il film.
I dialoghi in ogni film di Bergman sono costruiti in maniera minuziosa e in questo particolare caso sembra di assistere a un vero e proprio trattato di teologia (o addirittura di teleologia). Nonostante il film sia cupo e silenzioso (come Dio), sembra che in realtà il Pastore sia riuscito a conoscere un dio comunicante nel momento in cui ha amato di un amore sincero la propria moglie; perciò l'uomo, che come il figlio di Dio, si sente abbandonato nella futilità della vita terrena, amando veramente può innalzarsi a un dialogo con Dio.
Un prete protestante, dopo la morte della moglie, mette in dubbio la sua vocazione, il suo credo e i suoi valori. La trama è di fatto molto semplice e in realtà offre ben pochi sviluppi narrativi, ma Bergman riesce a dar vita a dialoghi di incredibile bellezza e a porre quesiti talmente profondi che è impossibile non rimanere folgorati dalla visione di questa perla cinematografica. Il rischio di scadere nella teatralità è alto, ma la pacatezza della recitazione e la magnifica fotografia riescono ad evitare anche questo difetto.
MEMORABILE: Il monologo sulla Passione di Cristo e sulla maggiore importanza delle sofferenze interiori rispetto a quelle fisiche.
Freddo nelle scene, freddo e crudele nei diaolghi. Un pastore vedovo perde la moglie, morta, la fede in Dio e la fiducia in se stesso. L'amore struggente di una maestra viene respinto più per necessità che per una sua effettiva volontà, spesso vacilla per poi allontanare il sentimento con rinvigorita cattiveria. Bella l'analisi sulla ripetitivtà e sulla mancanza di contenuti spirituali veri nella celebrazione eucaristica. E' il sacrestano, personaggio di contorno, a innalzare notevolmente il livello della pellicola regalando, allo spettatore, argomenti per una profonda riflessione.
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CuriositàDaniela • 26/04/16 17:28 Gran Burattinaio - 5941 interventi
In Luci d'inverno sono presenti nel cast sia Max Von Sydow che Gunnar Bjornstrand, quest'ultimo nel ruolo del prete protagonista.
Nel 1956, nel Settimo sigillo, il ruolo del protagonista era stato invece interpretato da Von Sydow, con Bjornstrand nelle vesti del servo.
Una autocitazione del Settimo sigillo si trova circa a metà di Luci d'inverno, in una scena ambientata all'interno della piccola Chiesa. Dietro le spalle di Ingrid Thulin è infatti chiaramente visibile un affresco sulla parete - intravisto anche nelle scene iniziali - rappresentante la morte che conduce per le redini un cavallo tenendo sotto il braccio una scacchiera: