Aman un adolescente somalo immigrato in Italia conosce Teodoro un ex pugile depresso. Entrambi trarranno forza da questa amicizia. Opera prima del regista Claudio Noce, Good morning Aman è un film sul rapporti tra due diverse solitudini, quella dello straniero e quella di un uomo sconfitto dalla vita e incapace di rialzarsi. Caratterizzato da una riuscita ambientazione e una buona prova dei due protagonisti, il film si rivela però narrativamente irrisolto ed avrebbe necessitato di una sceneggiatura di migliore qualità.
Il giovane Holden-italiano ha le fattezze allampanate di Aman, aspirante venditore d'auto che bighellona-abulico fra Piazza Vittorio ed il Corviale. La Citta Eterna è fotografata con purezza dall'esordiente Claudio Noce, che azzecca caratteristi (i pugili), tic e movimenti di macchina ma s'ostina ad insertare il tutto con malmostosi rallenty e raffiche di classica che fanno tanto Ken Loach che venera Eastwood che cita Kassovitz. I (non)dialoghi paradossalmente riecheggiano di "già sentito" così come le inquadrature traballanti, monotone e "troooppo arty". Mastrandrea ha l'amarezza di Manfredi.
Ciò che rimane più impresso del film è il compiacimento per le riprese estetizzanti e videoclippare. Non rimane certo la storia dell’amicizia tra un ragazzo somalo senza prospettive e un ex pugile depresso: due solitudini e la medesima sensazione di essere fuori posto. Storia bella, ma appena accennata, con una sceneggiatura talmente allusiva da scomparire e da far trasparire il velleitarismo dietro una presunta volontà di rendere le atmosfere o il non-detto. Roba da corto gonfiato o da diploma di regia underground. Sfibrante: da evitare.
Claudio Noce fissa la macchina da presa sul primissimo piano del giovane Said Sabrie e non la stacca più, accumulando così un'enorme quantità di tempi morti spacciati per silenzi carichi di significato. Il film vorrebbe catturare o perlomeno replicare frammenti di vita ma non ci riesce, sortendo l'effetto opposto, ossia imbalsamando la vita in scenette tanto elaborate quanto fasulle, accentuate da piccole frasi ad effetto e dal fastidiosissimo sussurrato che ossessiona da (almeno) vent'annni a questa parte il cinema italiano.
Giovane somalo aiuta ex pugile in depressione e gli diventa amico. Ritratto di solidarietà tra perdenti col quotidiano romano che non fa sconti: l’unico modo di evadere è raccontare balle. La regia, troppo impegnata a dar sfumature ai personaggi, non dà minima struttura alla storia. Eccessi tra vezzi autoriali, inquadrature ravvicinate e ralenti (ci si avvicina allo stile di Van Sant quando cammina) tediano. Il protagonista ha presenza scenica, Mastandrea al solito fa il triste.
MEMORABILE: La bottigliata in testa.
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