A osservare la serafica espressione di Darío Grandinetti, la calma olimpica e beffarda con la quale affronta l’interrogatorio della polizia che costituisce il fulcro del film, sembra di rivedere il Kevin Spacey de I SOLITI SOSPETTI. Inoltre ci sono la struttura ad ampi flashback e il continuo ribaltarsi dalla situazione, a ricordarci il classico di Bryan Singer. L’impostazione insomma, benché i personaggi principali (esclusi i poliziotti) siano solo due e il “caso” ovviamente diverso, è la stessa, con una grande attenzione per i dialoghi e per l'atmosfera manifestamente...Leggi tutto ambigua in cui il film è immerso. D'altronde, dal momento che l'origine è teatrale, l'azione latita e se non si fosse stati capaci di rendere interessante la storia attraverso una sceneggiatura attenta, sarebbe stato un disastro. Invece il film funziona, Darío Grandinetti (già apprezzato in PARLA CON LEI) è molto bravo e la bella Goya Toledo (vista in AMORES PERROS di Iñárritu) gli tiene testa con la dovuta efficacia. Il titolo originale - PALABRAS ENCATENADAS - fa riferimento al gioco con il quale il protagonista si diverte a scommettere la liberazione con la propria vittima: vanno trovate parole che cominciano con la sillaba finale di quella detta dall’avversario; chi si ferma ha perso (e notiamo come i nostri traduttori sbaglino inventando l'aggancio “marron”-”onnipotente”). Il rapporto vittima-carnefice è ovviamente centrale nei flashback, quello indiziato-investigatori nell'interrogatorio. I due piani come prevedibile s’incrociano fittamente rischiando di creare un po' di caos nel finale, ma l'operazione è condotta piuttosto bene da una regia di una certa classe.
Thriller da camera, claustrofobico e ridondante. Il gioco del gatto col topo sembra vedere nel ruolo felino ora Ramòn, il professore sospettato della scomparsa dell'ex moglie, ora l'anziano commissario Espinosa. In realtà, il gioco è un altro e non si capisce cosa c'entri con tutto il resto: le parole incrociate (in una variante orale in cui gli sfidanti devono dire una parola che cominci con l'ultima sillaba di quella pronunciata dall'altro). Che mi possa aiutare Bartezzaghi?
Pur dimenticandosi della totale assenza di originalità e ricordando, invece, una prima parte cattiva (realizzata senza mai eccedere in eccessi visivi) il film (secondo) girato dalla giovane regista di Barcellona, Laura Manà, si rivela essere un fragile raccoglitore di parole (incatenate o meno) destinato a conten(d)ere una metàfora della disgregazione affettiva tra uomo e donna. Una parodia acida del divorzio insomma. A tutto danno dello spettatore, costretto a sorbirsi una pellicola cervellotica (la protagonista, non a caso, è una psichiatra) e, cosa determinante, ingannevole.
Un uomo mostra ad una donna imbavagliata e legata ad una sedia una videocassetta in cui rivela di essere un serial killer, annunciandole che lei sarà la sua prossima vittima. Pochi giorni dopo, quello stesso uomo viene fermato dalla polizia che lo sospetta per la sparizione dell'ex moglie. La vicenda oscilla fra questi due piani temporali, in un gioco del gatto e del topo con ruoli ambigui quando non interscambiabili. Thriller spagnolo che si segue con interesse, grazie anche alla convincente interpretazione del protagonista.
Impianto teatrale, ottima recitazione, bella e nitida fotografia per questo thriller in cui verità e bugia si mescolano in continuazione sino alla chiarificazione finale. Fin troppo patinato per un genere che trova spesso la sua efficacia nel suo essere, volutamente o no, "sporco". Almodovar si tinge di rosso...
Classico film che non mi è dispiaciuto ma che al tempo stesso non guarderei più di una volta. Si tratta di un thriller psicologico di chiara derivazione teatrale, che ha il merito di calamitare l'attenzione fin da subito e di non mollare mai la presa. Il problema è che i numerosi ribaltamenti di prospettiva a lungo andare generano una certa confusione e quando la soluzione viene a galla ci si rende conto di una certa disonestà nei confronti degli spettatori. Buona, comunque, la prova degli interpreti.
Funziona. Magari non proprio tutto, però funziona. Merito dei due protagonisti, entrambi molto bravi, ma anche di una direzione interessante che nonostante l'essenzialità delle location e della messa in scena riesce a mantenere alta la tensione fino in fondo. Grandinetti (già apprezzato in Parla con lei) è davvero un sequestratore psicopatico alla Split? Varie incongruenze iniziano a minare la sua narrazione e non sfuggono alla sequestrata (Goya Toledo), questo però non significa necessariamente che lei sia fuori pericolo. Buono.
Può capitare che la riuscita di una pellicola sia dovuta soprattutto al protagonista, alla sua interpretazione. È questo uno di quei casi. Anche la reclusa se la cava; ma lui sovrasta tutti, con la sua personalità contorta che lo porta a essere imprevedibile. E grazie al fatto che da un simile individuo è lecito aspettarsi di tutto; e anche a un improvviso cambio di rotta e prospettiva, il tutto si rinnova, pompando il giusto quantitativo di ossigeno, in grado di far mantenere a un buon livello l'interesse dello spettatore fino all'epilogo.
MEMORABILE: Il discorso all'inizio; Come si cava un occhio; Le carte vengono rimescolate; Gli ultimi fotogrammi.
Quasi due thriller da camera in uno: da una parte il sadico gioco di un sedicente serial killer che si diverte a torturare psicologicamente una donna rapita, dall'altra lo stesso criminale interrogato da una coppia di poliziotti in sequenze che ammiccano a I soliti sospetti (sarà pure per una vaga somiglianza tra Dario Grandinetti e Kevin Spacey). Le due linee narrative si intrecciano e si alternano in un coinvolgente puzzle di salti temporali e plot twist in successione che andranno via via a contraddirsi reciprocamente fino al beffardo e azzeccatissimo epilogo. Gradita sorpresina.
MEMORABILE: Le lucidissime confessioni in video dei delitti; L'occhio da estrarre con un cucchiaino; La non troppo focosa esperienza sessuale; L'ultimo filmato.
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