Anthonyvm • 18/11/19 15:35
Vice capo scrivano - 829 interventiAttraverso le torture indicibili alla quale è stata sottoposta sin da piccola, una ragazza chiamata Victoria White sviluppa una nuova coscienza di sé e dell'esistenza stessa, elevandosi a una dimensione dell'io in cui la vita e la morte assumono un nuovo significato.
Tanti paroloni per dire in pratica che la morte non è la fine di tutto ma il principio di un diverso stato dell'essere.
Kasper Juhl, artista danese votato al cinema estremo, pone in questo lungometraggio (che esclusi i titoli di coda, di quelli lentissimi che devono allungare la durata a ogni costo, è di poco più di un'ora) le sue tematiche più care, che ritroveremo in molti dei suoi lavori successivi: l'abuso da parte dei genitori, l'uso di droghe all'ombra delle mostruosità del mondo, la prostituzione, donne incatenate e martoriate brutalmente, l'amara circolarità che regola l'universo.
Victoria White non ha mai conosciuto nulla nella sua vita che non fossero dolore, odio e violenza. I suoi genitori l'hanno torturata da bambina, l'hanno umiliata e spinta a prostituirsi. Ma anche dopo essersene andata di casa, il destino non le ha voluto riservare trattamenti migliori: rapita da un misterioso aguzzino, sarà seviziata per un anno fino alla morte.
Il film è esattamente questo: l'allucinante epopea di una povera vittima e le considerazioni mistico-filosofiche che le sue tragiche esperienze l'hanno portata a formulare.
Diviso in quattro capitoli ("Nascita", "Fra due regni", "L'oscurità dentro" e "Rinascita"), Madness of many può sembrare un'opera pretenziosa. E lo è. Si inizia con una didascalia introduttiva e intellettualoide sull'esperienza e sull'esistenza, tanto per farci capire che il film intende prendersi sul serio. Si prosegue con la voce narrante della protagonista, che accompagnerà l'intera visione talvolta con un effetto di estenuante prolissità.
Ma ben presto si è costretti ad ammettere che, pur essendo un prodotto a basso budget che può peccare di immodestia, la realizzazione tocca vertici qualitativi non trascurabili, non solo a livello tecnico. La bravura delle attrici (sì, Victoria White è interpretata da più ragazze, in una destabilizzante frammentazione dell'io che dà al suo personaggio un senso di universalità) sorprende, ed è il jolly che Juhl si gioca per dar corpo alla sua visione pessimistica del cosmo senza macchiarsi di ridicolo (quanti sono i film indie trascinati nel baratro del trash a causa del cast?). Ci si aggiungano le immagini molto ben fotografate e il sonoro attentamente montato, elementi vincenti che corroborano l'atmosfera desolante, nichilista e sconvolgente dell'insieme.
L'autore dà ampio spazio alla rappresentazione oggettiva delle sevizie alla quale Victoria è sottoposta, in una collezione di siparietti da torture porn di tradizione europea, ma riesce a non cadere nel gratuito. Le riflessioni esistenzialiste potrebbero sembrare pretestuose al cospetto della violenza mostrata, ma Juhl, anche a costo di suonare ripetitivo insistendo con la voce narrante sui medesimi concetti più e più volte, non le fa mai passare in secondo piano. Anzi, le sequenze di tortura, per quanto disturbanti e spesso realistiche, finiscono per sfociare in immagini surreali di forte impatto (soprattutto nel terzo capitolo, "L'oscurità dentro", che fra vomitate sanguigne, donne in catene senza occhi, eviscerazioni e assassini mascherati, sprofonda in un violento onirismo autoriale selvaggiamente efficace), sminuendo l'effetto shock in favore del loro valore simbolico ed evocativo.
Il dolore rappresentato da Juhl è solo un mezzo per raggiungere una specie di nirvana, un'autoconsapevolezza totale che trascende la conoscenza umana. Ciò, inserito in un contesto tanto violento, suona più come il disperato grido di Victoria che, nonostante tutto, cerca un minimo di logica nell'insensatezza di una vita passata nella sofferenza. Così ci ritroviamo a riflettere sui contrasti che regolano l'universo, l'amore e l'odio, la tristezza e la gioia, il corpo e la mente. L'oggettività e l'amore in senso assoluto possono essere raggiunti solo attraverso la forma massima di dolore: una sorta di purgatorio terreno, in preparazione di un nuovo step nel cammino dell'esistenza. Il male non esiste ("Ignoranza travestita" viene definito), il tempo non c'è, la morte è un'illusione. Victoria è grata a tutti coloro che l'hanno maltrattata nel corso degli anni, in quanto è solo per loro che adesso può godere della piena coscienza del tutto.
Inutile dire che, nonostante l'immagine positiva di una rinascita, di una circolarità ineluttabile da accettare in vista di un'ipotetica armonia spirituale, il messaggio finale ne esca estremamente cupo, deprimente e oscuro.
L'unico modo che abbiamo per trovare un senso in ciò che ci circonda è accettarne la mancanza di senso.
Che sia questa la tremenda verità rivelata a Mademoiselle da Anna nel finale di
Martyrs? La citazione del film di Laugier non è messa a caso. Sono infatti molte le connessioni fra
il film del 2008 e l'opera di Juhl, a partire dal concetto fondamentale del dolore che porta alla trascendenza. Ma il regista danese richiama esplicitamente
Martyrs anche attraverso certe sequenze (una su tutte, Victoria seduta e legata mentre un misterioso figuro la ingozza di una ben poco appetibile pappetta, per di più avvelenata). Ma è nell'ultimo capitolo che, per pochi istanti, si ha quella che potrebbe essere la rivelazione a sorpresa del film: l'aguzzino di turno tiene fra le mani un fascicolo etichettato come "Esperimento V. White". Che sia anch'egli a caccia di messaggi mistici da parte di una martire? Non ci è dato saperlo con certezza, ma gli indizi lasciano spazio alle speculazioni.
Pretenzioso o no, verboso o meno,
Madness of many ha un'innegabile potenza visiva alla quale è difficile restare indifferenti. Anche perché Juhl non dà mai un volto definito agli aguzzini di Victoria, nascondendone i visi con maschere o semplicemente usando riprese in soggettiva, mettendo quindi noi spettatori nei panni dello stesso torturatore. Sì, anche noi, volenti o nolenti, siamo coinvolti in questo scoraggiante disegno globale, e vedere il faccino sorridente di Victoria che si presenta a noi e ci chiede ingenua: "Sei tu la mia via alla felicità?" non può che farci sentire un po' in colpa.
E se le elucubrazioni pseudo-filosofiche non sono ciò che si cerca in un film extreme, ci si può sempre concentrare sulla violenza grafica che, come si è già ribadito, è sostanziosa. Soprattutto il terzo e il quarto capitolo sono un susseguirsi di immagini gore e disturbanti che lasciano poco e nulla all'immaginazione, culminando nella (non così criptica) sequenza della ragazza senza occhi che riacquista la vista dopo aver mangiato i bulbi oculari della testa mozzata di Victoria (strappati in dettaglio a mani nude, à la
The wizard of gore): dalla cosiddetta morte deriva la conoscenza suprema.
Certamente un film non per tutti che dividerà il pubblico, e che probabilmente - visto come chiave di lettura dei successivi lavori juhliani - tendo a sopravvalutare, ma se si è curiosi di approfondire l'opera del giovane cineasta danese, direi che è un valido inizio.
Anthonyvm
Schramm