Note: Titolo internazionale "Fateless". Tratto dal libro del premio Nobel Imre Kertész, scrittore ungherese ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento.
Nel film viene trattata la storia di un ragazzino ungherese che vede la sua vita trasformata completamente con la deportazione nei campi di concentramento. La trama è molto significativa, vengono analizzate a fondo le terribili condizioni dei campi di concentramento. Pellicola cruda, sicuramente da visionare. Ottima la fotografia.
Documentario non tanto su un contesto storico, quanto sull'anima di un ragazzo, che vive un degrado fisico più che mai evidente su schermo. La pellicola, divisa in tre parti, è lenta e un po' pesante poiché rifugge qualsiasi tentazione di retorica per fotografare (è il caso di dirlo, dato il passato di Koltai) la quotidianità dei campi. Non ci sono emozioni forti, cinematografiche, o sensazionalismi (si vedono anche pochi nazisti!); l'autore porta piuttosto a galla il contrasto tra i rari ma preziosi momenti di gioia dei deportati e il cinismo e la freddezza d'animo del popolo libero, restituendo un messaggio di glaciale verità: qualsiasi cosa può accadere a chiunque, poiché ciò è accaduto.
MEMORABILE: Il mutamento nello sguardo del protagonista, dapprima sprovveduto, poi disincantato, rassegnato e infine consapevole.
Storia di un adolescente ebreo-ungherese nell'inferno dei lager (da Auschwitz a Buchenwald). Il film mostra la tragica esperienza della deportazione e della drammatica salvezza che è poi una sorta di catabasi fisica e morale del giovane protagonista. L'opera non sempre risulta scorrevole nei ritmi ma è nel complesso un film di buona fattura che ha il merito di fornire un ulteriore punto di vista (a tratti poetico) sull'irrazionalità degli orrori nazisti. Merita la visione.
Di non facile visione, offre uno spaccato storico-realistico famosissimo che è quello dell'olocausto, qui vissuto attraverso gli occhi di un ragazzino ungherese. La sceneggiatura non si può dire banale, ma neppure innovativa. Per lo più è un pretesto per documentare la cruda realtà di quel periodo, con una discreta recitazione da parte del cast e una fotografia a dir poco meravigliosa.
Arrivederci ai ragazzi che vissero nella balena? Per Koltai si tratta di spremere la bellezza con l'orrore, l'orrore attraverso la bellezza, d'altronde la parentela tra i due sa essere stretta e l'uno determina l'altra. Sulla riuscita del lievitato impasto tra battere e levare ci sarebbe però da accomodarsi al tavolo delle trattative: a calibrato acting l'enfasi in odor di calligrafismo diventa spesso viatico di lezio magistralis (per tutte, l'invadentissimo score che sembra voler sovrascrivere il film), e creme-caramellare un orrore così assoluto finisce col lasciare dubbi non solo estetici.
Poco da eccepire per quanto riguarda il soggetto tratto dal libro autobiografico di un sopravvissuto ai campi di sterminio autore anche dalle sceneggiatura: la storia di un quindicenne ebreo ungherese deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald suscita commozione e sgomento come è giusto che sia. Qualche riserva invece sulla forma, per la fotografia ricercata che rischia di rendere "bello" l'orrore e la ost di Morricone, troppo presente e talvolta inutilmente esornativa. Nel complesso buono, ma avrebbe potuto essere migliore con una messa in scena più asciutta e meno convenzionale.
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