Rassegna estiva:
Postatomica-L'estate italiana del dopobomba Merito a Cupellini di aver realizzato uno dei post atomici più pessimisti, disperati e angosciosi dai tempi di
The road (con cui ha parecchio in comune, in primis la plumbea, minacciosa e ansiogena desolazione ambientale irta di pericoli che deve affrontare il "figlio" messosi in cammino per cercare colui-o colei-che le legga le pagine del quaderno scritto dal padre, ritrovandosi in un mondo totalmente in rovina e abitato da esseri mostruosi) che, a dispetto dell'inizio, forse debitore a certo cinema italiano riflessivo e autoriale, si muta in un feroce e crudele "dopobomba" che sembra rinverdire i fasti del passato, passando dall'autorialità simil
ferreriana a quella prettamente di genere (i bambini che non nascono più come in
2019, la fattoria sperduta di
Endgame, dove non ci sono più dei monatti ciechi ma due fratelli-tra cui un Maurizio Donadoni dalle possenti e poco rassicuranti fattezze luigimontefioresche-contadini sfigurati da quelle che appaiono come radiazioni e che tengono segregata, in una gabbia, una ragazza nuda (la Roveran, che passa la peggio odissea destinata ad una femmina in un post catastrofe) alla stregua di una cagna e
i nuovi barbari capitanati da un maligno e dittatoriale Alessandro Tedeschi, dediti al cannibalismo e allo stupro di gruppo che si annidano in quel che resta di una centrale dell'Enel, tipico rifugio decadente/futuristico/medievale del filone ).
Una lunga fila di carcasse di auto ricoperte di vegetazione e fogliame, l'attacco iniziale del cane sulle rive del fiume, la saggia "strega" cieca di una straordinaria Valeria Golino, il "boia" di Valerio Mastandrea, antieroe "madmaxiano" suo malgrado, col naso amputato, soggetto a mutilazioni da parte del leader del suo clan (Tedeshi non sfigura nel panorama dei tiranni del genere post nuke), surrogato malinconico e silente di un (im)possibile Jena Plissken, che leggerà le pagine "misteriose" del quaderno al "figlio", prima della catartica ribellione.
Poi la vasta rovina acquitrinosa (che sembra un
Waterworld andato in cancrena) e putrida tra fango, paratoie, limacciose acque di un fiume marcissimo che fa riemergere i suoi morti, cadaveri impiccati agli alberi, derelitti umani imbastarditi dalla sopravvivenza che sembrano usciti da un
Tranquillo weekend di paura post olocausto (il cacciatore di Fabrizio Ferracane che umilia il padre del "figlio" ficcandole la canna del fucile in bocca).
Suggestiva la fotografia di Gergely Poharnok, lo score perturbante di Franceso Motta, le location spettrali e deteriorate del Polesine e i pochi , ma incisivi, scoppi di violenza tra pugnalate e badilate.
Cupellini si destreggia abilmente tra puro cinema di genere e ambiziosità autoriali, e la rassegna non poteva concludersi nel migliore dei modi, come scriveva
Bad taste: "il primo film di fantascienza postapocalittico italiano da decenni a questa parte che valga la pena di sostenere e amare"