L'accusa - Film (2021)

Brillante studente di famiglia ricca e famosa viene accusato di aver stuprato la figlia del nuovo compagno di sua madre. Al processo, lui non nega i fatti ma sostiene che lei era conserziente... Nel percorrere le tappe usuali che si innestano in casi simili - le reazioni dei genitori, il clamore mediatico, il tentativo di colpevolizzare la vittima, le attenuanti addotte dalla difesa - il film risulta realisticamente problematico in quanto mostra in modo plausibile una "doppia percezione della verità" frutto di una cultura che inchioda uomini e donne a ruoli consolidati.

Attal mette in scena il lungo dibattimento che vede coinvolti un giovane di buona famiglia accusato di stupro ai danni di una diciassettenne di ceto inferiore, nel quale la verità viene condizionata dai pregiudizi e dall'etica delle rispettive classi e dai cavilli procedurali. Interessante e ben reso l'alternarsi di opposte visioni dell'accaduto da parte dei due giovani e le diverse valutazioni dello stesso evento, in cui verità e opinione non coincidono. Molto buona la prova dei due protagonisti Ben Attal e Jouannet, ma anche il resto del cast è altamente apprezzabile.

Un giovane di buona famiglia e buona istruzione viene accusato di stupro dalla figlia del compagno della madre. Opera notevole, in cui l’analisi della diversa percezione della verità è profonda e senza sconti. Una sorta di gioco al massacro in cui non ci sono, secondo il regista (che non prende posizione), innocenti o colpevoli ma solo vittime. Gli interpreti sono bravissimi e ciascuno mostra in modo ottimale l’ambiguità del proprio personaggio, che riguarda tutti senza eccezioni. Il titolo originale è decisamente migliore di quello troppo schematico italiano.

Thriller giudiziario francese tratto da un controverso romanzo giovanile e di intricata comprensione, poiché la chiave di lettura risiede nel confrontare la psicologia dei "presunti" carnefice e vittima, fondamentali in un processo di violenza sessuale. L'opera cerca sempre di mantenersi bipartisan, ma è evidente il suo chiaro messaggio antifemminista: di fronte a un'accusa di stupro l'uomo è rovinato a prescindere, a prescindere dalla classe sociale.

Non c'è che dire, la sceneggiatura e la direzione degli attori sono di ottimo livello e permettono a un soggetto già visto parecchie volte di smarcarsi da banali codifiche, di coinvolgere senza bisogno di sequenze scabrose o spettacolarizzanti e di indurre comunque a riflessioni e dubbi su quanto viene raccontato. Perché la storia è volutamente aperta e assimilabile sotto diversi aspetti e le sue sottotracce (ricchezza, esplicitazione del consenso, infedeltà, religiosità, bullismo) sempre un valore aggiunto e mai perniciose. Buono anche il ritmo, nonostante le due ore abbondanti.

Ardimentoso sia nel suo andare contro il manicheo spirito dei tempi che nell'instaurare un rapporto dialettico con lo spettatore, mettendolo nel duplice, incomodo ruolo di giudice e di "attore" nei panni dei personaggi, le cui versioni sono rese (grazie a un'opera di regia tanto calma quanto dettagliata) nelle sfaccettature che afferiscono alle "umane cose" (vedasi titolo originale) e non a stereotipi preconcetti, snaturanti per quanto sociologicamente comprensibili. Ne risulta non una visione pilatesca o salomonica ma un atto cinematografico maturo, capace di indagare l'ambiguità.