Kubi - Film (2023)

Kubi in giapponese significa “collo” e, dopo aver visto il film, non è difficile capire il perché del titolo. La quantità di decapitazioni a cui si assiste nell’arco delle due ore e oltre di proiezioni ha pochi eguali nel cinema: con estrema naturalezza (e buona resa degli effetti speciali) Kitano taglia teste a profusione, usanza che nel Giappone del 1579 (anno in cui il film è ambientato) non era certo insolita.

Siamo nella corte di Nabunaga Oda (Kase), intenzionato a ricercare il pericoloso Murashige Araki (Endo), possibile cospiratore resosi irrintracciabile e che Oda sogna di catturare vivo per fargli fare poi la peggiore delle morti. I vassalli...Leggi tutto del grande capo sono però malfidati e costretti a sottostare a chi non è esattamente l’emblema della sanità mentale. D’altra parte caratteristica di molti di loro è l’alzare la voce, il gridare alternando le esplosioni di collera a improvvisi silenzi in quelle che ai giorni nostri appaiono decise caricature a cui il Kitano regista assegna qua e là battute che fanno come sempre sorridere. Ed anzi è egli stesso, nei panni del vassallo chiamato “la scimmia”, a dare la miglior prova sotto questo punto di vista. Non nella prima parte però, in cui ancora la deriva verso una buffoneria crescente è sostituita da estenuanti riunioni in cui si infilano in sequenza nomi faticosamente memorizzabili e piani di espansione altrettanto complicati da tenere in considerazione seguendo la storia.

Meglio abbandonarsi agli sforzi poderosi della messa in scena, con ottime coreografie di battaglia in campo lungo e non solo, masse che si spostano insieme restituendo la grandiosità degli scontri, sangue che scorre copioso e sprizza dai corpi perforati: frecce, colpi di fucile, lance e spade… ogni arma impiegata ha una sua funzione i cui effetti vediamo plasticamente resi tra improvvisi schizzi di sangue e teste staccate di netto ed esposte come trofeo in segno di vittoria. Tutta la ferocia di tempi in cui la guerra era soprattutto questo viene portata sul set e talora commentata, di lontano, da chi guarda divertendosi alle spalle dei veri combattenti. Se il film fosse principalmente questo sarebbe meglio, perché invece sono le parti parlate a prevalere, gli interminabili sproloqui di Oda e i suoi, i sorprendenti intervalli omosessuali, le istruzioni consegnate a questo e a quell’altro perché partano in missione.

Naturalmente è incontestabile l’abilità di Kitano di azzeccare singolarmente ottime sequenze che contengono la quintessenza di uno stile universalmente apprezzato e riconoscibile, così come la capacità di colpire con gag che si penserebbe impossibile inserire in simili contesti. Ciò non basta, però, a rendere a tutti potabile una vicenda tanto lontana dal nostro mondo e che spesso appare come una sequenza di esasperanti esplosioni d’ira, sotterfugi e dialoghi di scarsa presa e pregnanza.

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