Markus • 20/04/08 14:05
Scrivano - 4773 interventiUna lunga ed interessante analisi tratta da IL TEMPO, dopo l'uscita del film:
"La “Bottega” di Pupi Avati (ma chiamatela anche “factory”, officina, scuola d’arte) ci ha sfornato un nuovo gioiellino. Bellissimo e, come impostazione organizzativa e creativa, del tutto insolito se non addirittura unico. Il soggetto, infatti, è di Pupi Avati, i cinque episodi in cui il film consiste non solo sono diretti da cinque registi diversi (un fatto abbastanza consueto) ma, girati tutti contemporaneamente in cinque luoghi diversi d’Italia nel breve arco di una settimana, hanno consentito che i tempi di produzione non superassero i sette giorni. Escludendo, dopo, il tempo impiegato da Pupi Avati, in veste di coordinatore, per curare l’edizione del film, e cioè, il montaggio, le musiche. Riuscendo, in questa veste, e come autore anche del soggetto, a conferire ai cinque episodi, che narrativamente si intersecano l’uno nell’altro mentre si svolgono, una omogeneità totale di gusto, di stile, e una felice compattezza, anche formale. Con il vezzo, non nuovissimo questo, di non dichiarare neanche nei titoli di testa chi, dei cinque registi coinvolti nell’impresa, ha diretto questa o quella storia, ma annunciandoli tutti insieme all’inizio, se non come responsabili di un lavoro in comune come esponenti appunto di un’unica “bottega”: in testa Pupi Avati, poi suo fratello Antonio, quindi Cesare Bastelli, Luciano Manuzzi, Felice Farina, coadiuvati ciascuno, ovviamente, da cinque diversi direttori della fotografia ma, alla fine, in collaborazione con un montatore unico (Amedeo Salfa) supervisionato dal capogruppo Avati.
Un risultato di grande qualità. Che, anche da punto di vista produttivo, potrebbe aprire nuove strade al cinema italiano, più economiche, più essenziali,’ di successo più meditato e sorvegliato. Il titolo, secco, secco, annuncia nozze. Nozze, penò, in cui gli Sposi, salvo in un episodio, non sembrano granché convinti al grande passo. Qui a Fregene, ad esempio, un divo televisivo al tramonto si accinge a sposare una donna che è stata al centro di un chiacchieratissimo stupro unicamente per fan parlare ‘di sé i ‘giornali e rifarsi un’immagine; nello stesso momento a Roma, un ventenne che lavora come maschera in un cinemino di periferia si sente invitato a nozze riparatrici dalla cassiera quarantenne che incautamente ha messo incinta; a Bologna, un ricco e già anziano finanziere si scontra in un lussuoso albergo della città con la sua giovane e bellissima fidanzata con la quale stenta a fare i piani giusti per un matrimonio cui molte cose si oppongono; a Cesena un giovanottone torna con la ragazza che sposerà tra qualche giorno sui luoghi della sua infanzia ma un suo amico di sempre rischia di diventare, oltre ogni logica, un terzo incomodo; e a Fiumicino, finalmente, due divorziati si ritrovano per caso, lui sempre alla ricerca di espedienti, lei solo in apparenza sistemata, e rasentano il pericolo di ricominciare da capo, mettendosi reciprocamente nei guai.
I toni qua sono ilari là invece dolorosi, ora tendono a voltare in burla situazioni e personaggi, ora puntano sul graffio e sul grottesco, con un’attenzione penò sempre costante – ed è la firma di Avati – per i climi umani, per l’osservazione dal vivo e da vicino del nostro quotidiano, mostrato come tale anche quando si fa avanti l’eccezionale e l’insolito. Con quel gusto e quell’abilità di passare costantemente da un episodio all’altro che, quasi con cadenze televisive, sveltisce al massimo la narrazione, mette in risalto – anche all’interno di quel “basso continuo” dell’umanità di cronaca d i ripetuti salti di registro, gli scoppi di umore, il variare dei motivi e dei toni. Chiudendo con un happy end per metà faceto (gli episodi sommati tutti insieme in un’immagine unica) cui ha messo mano da solo Luciano Emmer, probabilmente anche in ricordo del suo lontano Domenica d’agosto dato che qui tutte le cinque vicende si svolgono simultanee in un Ferragosto di oggi.
Completa i tanti meriti del film l’interpretazione di un gruppo di interpreti così affiatati tra loro da sembrare far parte tutti di un solo episodio e diretti tutti da un unico regista. A cominciare da Carlo Delle Piane, un finanziere litigioso e sospettoso, amato con eguali sospetti e litigi da una bellissima e bravissima Elena Sofia Ricci. Fra gli altri, Jerry Calà, il divo televisivo che si sposa per la carriera (la sua partner è Delia Boccardo), Alessandro Haber e Ottavia Piccolo, la coppia di divorziati (anche loro perfetti) e, presente qui purtroppo per l’ultima volta, il caro Nick Novecento cui giustamente il film è dedicato. Una nota malinconica cui fanno riscontro, in filigrana, tutte quelle, sommesse e raccolte, che si intuiscono qua e là all’interno dell’azione. L’occhio sul mondo di Avati e della sua “bottega”, anche quando è ironico, è raramente ottimista. le “stelle” ci sono, ci ha detto una volta, ma nel “fosso”
Da Il Tempo, 14 maggio 1988
Ultima modifica: 20/04/08 22:07 da
Markus
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