Un pò
La fabbrica delle mogli, spizzichi degli ultracorpi e delle generazioni perfette o delle scuole di zombi, qualcosa della
Fuga di Logan, misto di "Mine-haha" e Alice (come il nome della sua autrice) nel paese delle suspiriose meraviglie dispotiche, intinto nel glamour pastelloso e nello sfarzo delle scenografie timburtonesche da superare il kitsch più pacchiano, di una stucchevolezza quasi nauseante, così come i costumi sgargianti alla Lady Gaga, tra paradisiache isole di riprogrammazione (dove tutto è idilliaco e perfetto, forse eccessivamente troppo) dove l'apparente cortesia e irrealtà lascia ben presto il posto all'inquietudine.
Favoletta femminea cenerentolesca (da annali del lussuoso trash l'incipit, che tira in ballo
Labirynth, fa sfoggio di ridondanti e eccessive scenografie e costumi lussureggianti e non evita terribili parentesi canore manco fosse un musical disneyano), che stordisce e infastidisce per la troppa sovrabbondanza (anche nelle asettiche e perfette costruzioni da paradiso terrestre dell'isola delle ultracorpesse, con scalinate che rimandano ai concepimenti escheriani, gazebo, roseti, stanze da letto futuristiche da belle addormentate), che parte zuccherosa e palesemente falsa, per , poi, via via, assumere i tratti inquieti del "c'è del marcio in paradiso" abbracciando la SF dispotica e l'horror tout court.
Gelosie represse e passioni lesbo (la figura della cantante Armana, Eiza Gonzales, la migliore del lotto femminile insieme alla Jovovich), cominciano a guastare l'armonia fasulla del lussuoso "centro di riabilitazione" per fanciulle di alta classe (le caste, come in Logan, si dividono nettamente in due, da una parte i ricchissimi "superiori", dall'altra i poveracci detti "gli inferiori"), la Jovovich (la duchessa) che nasconde, dietro a un'impostata gentilezza e a una finta trasparenza, un'animo da strega delle fiabe (i suoi scatti d'ira fanno incrinare specchi con la sola forza del pensiero che manco Elena Markos) e sotto l'sola che non c'è si attuano esperimenti scentifici che annientano definitivamente la personalità, rimodellando le ospiti in perfetti cloni accondiscendenti e ubbidienti.
Ragazze reiette mummificate pronte a prendere il posto di quelle originali, una sala di controllo che mostra il trapasso della clonazione perfetta, e i pizzi e i merletti marciscono in fretta, in un roseto della morte dove i cadaveri sono un tutt'uno con i fiori (come il giardino di
Motel hell) e le rose pulsano di vita propria come i Trifdi, mentre la Jovovich "germoglia" in una mostruosa Ezbeth Bathory succhiando sangue e linfa vitale come il ragno fa con la mosca (una yuznata davvero mica male)
Se la prima parte è un vademecum da film per ragazzine, la seconda si ammanta di oscurità e riverberi orrorifici, che alzano l'asticella con stoccate disturbanti (almeno la Jovovich vampiressa floreale) e stoccate visive niente male (la tenebrosa piscina con le ragazze/clone/poveracce bendate come mummie modello Simone Choule di polanskiana memoria), per poi accartocciarsi in un finale vendicativo macchiavellico che pare la versione rancida di Cenerentola, del "revenge" movie muliebre al risparmio.
Tra ologrammi a cavaluccio o rubati a
Star Wars (la collanina della Roberts che proietta, una volta dischiusa, lei bambina che gioca con il padre), tradimenti, canzonette che nemmeno
High School musical, baci lesbo, latte avvelenato (in un sol colpo la Waddington cita
Biancaneve e
La bella addormentata, nonchè, in chiusura pure Cappuccetto rosso), spregevoli riccastri da sposare contro la propria volontà, pesonaggi ribelli da macchietta (la ragazza cinese sempre imbronciata), melliflue streghe alla
Nel fantastico mondo di Oz, inservienti, corpi sostitutivi o doppioni di sè stesse, ragazze sovrappeso e la loro copia fisicamente perfetta, sfarzose Ius primae noctis viste da diversa prospettiva e, forse, una razza aliena che rimodella l'essere umano privandolo della sua vera identità.
Oltre che bella la Waddington è pure bravina, il gusto estetico non le manca e , tra tanta pomposa opulenza, qualche colpo ben assestato riesce a portarselo a casa (almeno tutta la parte finale, quella che sfocia nel fantahorror).
Contribuisce la magnifica fotografia di Josu Inchaustegui, che si fa ammirare anche nei momenti dove l'appariscenza si mangia la sostanza.
Nulla di cui strapparsi i capelli, con più difetti che pregi (c'è pure la fastidiosa CG nel corpo mutante/gordoniano in via di vegetazione della Jovovich, ma non inficia più di tanto), ma un'intrattenimento che, a intermittenza, non si fa disdegnare, e , naturalmente, ben poco è concesso alla carnalità e alla visceralità.
Favola rosa confetto dai risvolti dark, Serrador in chiave
Vogue misto a remasugli da
Cioè, fin troppo femminile e spesso eccessivamente appariscente, dove matriarcato (ohibò la Ellen Burstyn del tanto vituperato remake di
The wicker man, che mi veniva in mente) e ribellione vanno a braccetto, in un comparto gineceo stereotipato che stà tra
L'educazione fisica delle fanciulle e un video di Lady Gaga.