Buiomega71 • 26/09/20 11:10
Consigliere - 25999 interventi Seconda versione del romanzo omonimo di Alberto Moravia, dove, pare, che Cedric Kahn sia rimasto più fedele al testo moraviano (ovviamente il libro non l ho letto) citando addirittura i testi scritti dallo scrittore romano nei dialoghi tra Berling e la Guillemin.
Con lievi differenze dal film di Damiano Damiani (il protagonista non è più pittore ma un professore di filosofia con velleità da scrittore, al posto della madre ingombrante e possessiva di Bette Davis c'è l'ex moglie a cui confida tutti i particolari della sua relazione sessual/ amorosa ossessiva con Cecilia-un pò come farà, invertendo i ruoli, Fanny Ardant con Michele Placido ne
L'odore del sangue-in Damiani la decisone di lasciare la ragazza viene meno quando il protagonista la vede a passeggio per Roma insieme ad un altro ragazzo, in Kahn è una telefonata e un appuntamento mancato a far vacillare le sicurezze dell'uomo, non c'è più la grande villa materna e non viene presa in considerazione la sequenza della ragazza nuda ricoperta di soldi e il finale si prende le sue libertà rispetto a quello messo in scena da Damiani. Eppoi, ma quì è un fattore di epoche e di ferree leggi censoree, Kahn da libero sfogo ai congressi carnali tra i due, con una serie di amplessi reiterati e prolungati, dove in Damiani erano solo accennati per ovvie ragioni proibitive e, di contro, Damiani pareva un tantino più morbosetto, ritraendo il pittore come una specie di libertino pedofilo, mentre Kahn lo dipinge come un sessantenne sessuomane con il volto del regista indipendente Robert Kramer-non si capisce poi perchè doppiato in italiano con accento francese- e via le fotografie di nudo delle ragazzine del trattato damianesco, piuttosto ardite per gli inizi degli anni 60, che per Kahn diventano solo dipinti di corpi femminili nudi in varie pose e che mancano di quel mood morboso così sottilmente sbattuto in faccia da Damiani).
Ne esce così una seconda messa in scena cinematografica (riduttivo e annoso parlare di remake) piuttosto nervosa, febbrile, qualche volta cinica, altre un pò noiosetta (per dare rilevanza al titolo) negli spoloqui deliranti e nelle domande insistenti di Berling, nel suo continuo ricorrere freneticamente da un telefono all'altro, dove l'ossessione per Cecilia diventa malattia , gettando l'uomo sul tracollo della fobia e sul baratro della follia, tra gelosia e paranoia.
Kahn ci mette dentro, anche, strascichi polanskiani, il Bertolucci dell'
Ultimo tango e riverberi zulawskiani, dove il sesso irrompe sullo schermo, in una carnalità strabordante ma al contempo algida, dove Berling viene preso dalla foga schizofrenica di possedere Cecilia ovunque e in ogni istante, sempre con la voglia addosso che va di pari passo con la sua opprimente ossessione.
Sequenza quasi identiche al film di Damiani (come quando Berling chiede alla ragazza di farle vari favori prima di fare all'amore, l'incontro con i genitori di lei e il padre ammalato di tumore alla gola che emette suoni gutturali) fino al prefinale al viale notturno delle mignotte, che si ammanta di luci inquiete e allucinate (l'impatto della BMW contro l'albero) e soprattutto la fredda e impenetrabile indifferenza della ragazza (
Cecilia non vuole bene a nessuno) nel corpo burroso di una straordinaria Sophie Gullemin (terribili le scarpe che indossa però) , dove tutto le scivola addosso con glaciale vuoto interiore di cui non fa trapelare nessun tipo di sentimento che manco le donne robot della
Fabbrica delle mogli (anche se la Spaak di Damiani era più tagliente e quintessenza della fredezza femminile), con sguardi e slanci da ragazzina banale e ignorante, ma di un distaccamento affettivo che mette inquietudine e disagio (si veda la sequenza delle crepes al parco).
Di mezzo Cecilia che fa pipì davanti a Berling e si asciuga con la salvietta in mezzo alle gambe e la ripone, quando c'ha le sue cose e non può fare l'amore, al bankomat a prelevare 6 mila franchi (meno poetica e più pratica che ricoprire il corpo di bigliettoni da mille), Berling che la assale fisicamente nei momenti di rabbiosa gelosia, il magrebino biondo con cui Cecilia ha una relazione in concomitanza con Berling, la prostituta abbordata in macchina che prende le fantasmaticamente sembianze di Cecilia prima dell'impatto (in Damiani una semplice e disperata richiesta d'amore, in Kahn una fellatio dalle disastrose conseguenze).
Una Parigi notturna, astratta e alienata (splendida la fotografia di Pascal Marti) al posto della Roma assolata e nostalgica di Damiani, Berling ( che si prodiga pure in nudi integrali frontali) meglio di Buchholz, la Gullemin, seppur intensa e carnosa, un pò più sotto alla Spaak e la regia (livida e incisiva nonchè, a volte, teatraleggiante) tipicamente francese di Kahn distante da quella chirurgica di Damiani (ma quì è questione di stile personale) e l'ex moglie della Arielle Dombasle non fà rimpiangere troppo la madre cinica della Davis.
Vive di certo realismo, di qualche snobbata, e di una ruvidezza narrativa che evita certo cinema francese da salotto, questa "nuova" Noia, che brilla nei "rabbiosi" rapporti sessuali, nella perdita della ragione del suo protagonista e nella femminiltà prorompente, sfuggente, apatica, impassibile e fisica della Gullemin.
La noia c'è un pò, quà e là, ma ridestata da momenti di aspra vivacità e di odorosa sessualità.
Difficile dire se sia meglio Damiani o Kahn, così vicini al testo moraviano, ma così distanti per stile, fattori epocali e cultura cinematografica.
Giacomovie, Schramm
Pinhead80
Buiomega71
Saintgifts, Lucius, Beffardo57, Enzus79