Dal regista di
Non entrate in quella casa un thrillerino sciapo e slavato, di stampo prettamente televisivo.
Lynch si barcamena tra i riverberi di
Sotto il vestito niente e
Repulsion, ma per arrivare al lato psychothriller della vicenda ci si deve sorbire una roba che sembra quei filmetti, tremendamente anni 80, sulla ragazza semplice e timida che sfonda nel mondo dello spettacolo.
Quindi una sottospecie di
Diavolo veste Prada ante litteram nella figura della Kellerman, direttrice dell'agenzia di moda dai gusti decisamente lesbo, qualche sfilata, un tremendo video musicale di un'improbabile rock star da bancarella, loschi figuri che gravitano intorno a quel mondo (un coreografo dalle mire stupratorie e misogene, un ambiguo fotografo, un cantante sciupafemmine tamarrissimo, una direttrice saffica, un segretario continuamente umiliato e mazziato), scatti fotografici (di natura alla Vogue o pseudodepalmiani) e registi che sclerano mentre girano il loro videoclip.
Una valangata di situazioni noiose e inutili che tengono via metà film.
Comincia poi il body count, eliminando chi gravita in quel mondo, di una pochezza imbarazzante (l'assassino, poi, è facilmente individuabile già dal primo omicidio che vede una modella presa a forbiciate nel suo appartamento, dopo che ha provocato sessualmente l'assassino, in stile
L'occhio che uccide, complice anche il titolo italico, che storpia quello del cult zemeckisiano tanto per darle un richiamo, che di certo non aiuta a mantenerne celata l'identità) tra strane telefonate e minacce scritte sullo specchio con il rossetto.
Un cadavere insanguinato in ascensore, i disegni inquietanti e oscuri di una bimba apparentemente vittima di abusi e una fuga tra le caldaie simil
Nightmare non bastano a tener desta l'attenzione di questo sciapetto thrillerino da discount.
Peccato però, perchè Lynch, dopo una piattezza quasi disarmante e anonima, tira fuori il meglio di sè nella chiusa finale, cioè quando si svela la vera faccia dell'assassino e le sue turbe psichiche: una stanza di contenzione, un monitor, la lucida follia muliebre, gli abusi sessuali paterni e lo psichiatra (una piccola sorpresa attoriale non citata nei titoli) che incalza e sonda la personalità devastata e doppia del soggetto in questione.
Come sempre la Rubin si dimostra un'attrice dotatissima e assai sottovalutata (io adoro la Rubin, soprattutto in
Vivere nel terrore, e in quei due piccoli cult che sono
Paura oltre la porta e
Inganno pericoloso, quì, però, invero assai sprecata), ma lo script e la messa in scena paratelivisiva senza nerbo non aiutano questo thriller a decollare, dove si poteva fare molto meglio e di più (abusi paterni, bisessualità, repulsione del sesso come causa scatenante della follia omicida).
Alla fine rimane un gialetto trascurabile da polveroso scaffale dello straight to video.
Pare che il regista di
Humongous non abiti più quì.