Stevens atto terzo, ovvero il ritorno dei fiori nel paese (o meglio nella casa) degli orrori, l'antinferno che tiene in grembo le sue vittime femminili, facendole percorrere gli stretti cunicoli fognosi e purulenti dell'anticamera del calvario, della pena e dell'angoscia in un coacervo di putredine, dove l'anima errante, prima di trovare la pace eterna, deve affrontare gli umori decomposti e la follia devastatrice del suo carnefice.
Il sequel inizia proprio dove il primo
Flowers finiva (la dimora del serial killer vista dall'esterno, speduta nel nulla), e questa volta il fiore è soltanto uno, Orchid (la compagna di Stevens, Colette Kenny Mckenna, dai capelli verdi , zeppa di tatuaggi e con le pupille nere, che in
Flowers era la prima ragazza chiusa nel tugurio cadaverico) che si ritrova a districarsi nel putridume e nel nauseabondo caos necroforo fatto di cataste di corpi in putrefazione o decomposti, di stanzone maleodoranti e marcescenti dove troneggiano non solo la puzza di necrosi, ma svastiche e una parete interamente ricoperta da foto pornografiche.
Di mezzo c'è sempre lui, il laido e ciccioso serial killer collezionista di bambole di carne, che si lascia andare a disgustose, grottesche e solitarie feste di compleanno e in più si aggira lo stesso Phil Stevens, sorta di angelo della morte che passa a macinare carne o a smembrare corpi femminili nella vasca da bagno.
Alla fine
Flowers 2 è tutto quì, dove Stevens si (ri)dimostra cantore del marciume e del putridume, delle raccapriccianti e orripilanti composizioni cadaveriche , delle mostruose e claustrofobiche stanzette che contengono necrofilia , scheletri andati a male e corpi in disfacimento in ogni dove (che siano fatti a pezzi, sviscerati o che servano da ripugnanti scenografie, ideale immaginario della mente devastata e misogina del lardoso e schifoso serial killer di Bryant Lohr).
Filmini in super 8 che contengono snuff a uso e consumo prettamente personale (da gustare scopofilicamente gustando dei zuccherosi pasticcini), squallidi televisori da campeggio che trasmettono immagini di dolore, sevizie e morte, telefoni antidiluviani che suonano sepolti da resti umani, la stanzina del carillon che pare uno squarcio destabilizzante e straniante in mezzo a tutto quel marciume necoforo, le costole rimesse dentro, corridoi zeppi di montagne di resti umani che portano ad altri locali ancor più fetidi (le scenografie cadaveriche di
Non aprite quella porta 2 le fanno un baffo), la scarpetta bianca femminile ritrovata in mezzo alla catasta di ossa e scheletri, la nemesi femminea dopo il supplizio, una specie di divinità mortifera (o la morte stessa) che si para davanti a Orchid, fino al risveglio dei cadaveri scheletrici nei sacchi e alle figure nere che tentano di ghermire la ragazza in mezzo a tutto quell'inferno.
Ma al di là della vena necrofora e morbosamente visonaria di Stevens, non si aggiunge nulla che non sia stato già narrato nel primo
Flowers (che per il sottoscritto rimane uno degli extreme indie piu belli e geniali mai girati), con la sensazione che Stevens non abbia molto da raccontare, se non a riprendere stilemi e situazioni già collaudati, facendo non solo riferimento a
Flowers (alcune sequenze vengono riprese direttamente dal primo film) ma anche a
Lung, amplificando così, a dismisura, l'universo stevensoniano, diventando sempre più criptico e antinarrativo, quasi chiudendosi in sè stesso per baloccarsi con i suoi incubi andati in necrosi.
La potentissima forza visionaria di
Flowers và a intermittenza (alcune sequenze, comunque, sono di un marciume meraviglioso, tipo Stevens che fa le foto a Orchid priva di coscienza sul letto, alternandola con un cadavere o il piede squarciato di Orchid) e la chiusa finale nel bosco è di una poesia macabra deliziosa, dagli acri sapori jeanrolliniani, fino allo slow motion mortifero sui titoli di coda.
Il tutto immerso in disturbanti rumori di fondo e ricoperto dallo score penetrante di Mark Kueffner.
Il cinema di Phil Stevens, comunque, continua a essere personale e intimo, una ripugnante e maleodorante melodia fiabesca che non ha bisogno di dialoghi, un mondo a sè, avariato e poeticamente imputridito.
Note a margine: Alla realizzazione del film ha contribuito, nel suo piccolo, anche il sottoscritto, versando una somma a Stevens per il budget (che si aggira sui 19 mila dollari), con il metodo del fundraising, per poi essere ringraziato (insieme ai fan che hanno contribuito economicamente al progetto) sui titoli di coda. Insomma, sono piccole soddisfazioni.