Away with words - Film (1999)

Quello che rimane dopo la visione non è tanto la trama, ma un insieme di situazioni condotte indubbiamente con grande eclettismo. Immagini, suoni e sensazioni che vagano in libertà per raccontare di un giapponese tormentato dalla sinestesia (e dalla memoria) ed un australiano sempre sbronzo che non ricorda mai niente. Inutile cercare spiegazioni o logica: è un quadro in movimento, dove ogni pennellata vive di colore proprio ed il pittore alterna velocità e pausa, commedia e tristezza, passato e presente. Un juke box anarchico e confusionario.

Essere stranieri agli altri e a sé: un giapponese sovraccarico di memoria trova la propria casa emotiva nel divano di un night di Hong Kong, il cui padrone è a sua volta australiano, nonché gay, abbirrazzato e smemorato. Intrigante l’impasto di 3 lingue, ma soprattutto una visività originale, che è ciò che davvero interessa a Doyle, da direttore della fotografia (di Wong Kar-wai e Van Sant tra gli altri) che imbastisce una narrazione dispersiva e a singhiozzo, da videoclip autorale, per concedersi alla pura deriva sensoriale. Ebbro.