Il lungo Cam(m)ino dal lacrima-movie al torture-porn
Difficile parlare di questo neo-lacrima-movie ispanico senza farsi venire un groppo in gola per la rabbia. Sia chiaro, non rabbia per la vicenda raccontata ma per i modi ed i fini per cui tutto ciò è stato realizzato.
Il film di
Javier Fesser, mai sbarcato in Italia, si ispira alla storia vera della 14enne spagnola
Alexia González-Barros, che nel 1985 fu colpita da una rarissima forma di tumore osseo maligno (il rabdomiosarcoma) difficilmente curabile e dalla prognosi prevedibile e infausta.
Durante la sua lunga agonia la ragazza, paralizzata a causa della malattia, subì ben 4 lunghe operazioni chirurgiche e fu sottoposta ad un trattamento radiante e chemioterapico che si protrasse per 10 mesi, sino al giorno del suo decesso.
Secondo alcuni testimoni e familiari Alexia accettò con gioia questo suo percorso di dolore (
Camino, ossia "cammino, strada, percorso", oltre che nome della protagonista del film è anche il titolo del testo primario dell'Opus Dei, scritto nel 1934 dal fondatore
Josemaría Escrivá de Balaguer) e seguendo gli insegnamenti ricevuti dai genitori, ferventi religiosi, scelse di dedicare le sue sofferenze alla Chiesa, al Papa e a tutti i fedeli del Mondo.
Grazie a questa sua estrema forza di volontà e al coraggioso altruismo dimostrato nella terribile convalescenza, la Chiesa prese in considerazione il caso di Alexia e ad 8 anni di distanza dalla sua morte ne avviò il processo di Beatificazione, che si chiuse favorevolmente il 1° Giugno del 1994.
Fin qui i fatti reali.
In questa pellicola però, incredibile a dirsi, tutto viene romanzato e infantilizzato nelle forme di una macabra fiaba surreale sul Bene e sul Male: da un lato troviamo la mamma ultracattolica, che inculca col sorriso le sue convinzioni penitenti e doloristiche sulla missione di vita umana e dall'altro la piccola ammalata, che vorrebbe vivere in tutta libertà la sua vita da adolescente, recitando a teatro e innamorandosi di un suo coetaneo, ma che invece si vede costantemente tarpare le ali non solo concretamente ma persino nei sogni (incubi veri e propri in cui quello che dovrebbe essere il suo angelo custode assume le forme di una semi-arpia infernale che la bracca e terrorizza seguendola dappertutto).
Le autorità religiose diventano di contro mostruosi sciacalli che fiutano l'appeal della tragedia e ne sfruttano l'esemplarità per portare acqua fresca e limpida al loro mulino pubblicitario (da parte di questi ultimi non si parla mai di disgrazia ma di un dono immenso, di una fortuna inestimabile concessa da Dio alla piccola degente).
A tutto il deformabile e lo strumentalizzabile presente nella vicenda si aggiungono poi anche elementi di pura spettacolarità populistica, che si rivelano addirittura contrastanti tra loro: alle puerili divagazioni fantasy (il topolino semi-immaginario di darabontiana/kinghiana memoria) e alle oniriche aperture surreali (le colpevolistiche miniaturizzazioni alla Gondry, i sogni apocalittici in teatro ed in spiaggia) fanno eco le ciniche e traumatizzanti incursioni voyeuristiche della macchina da presa (i crudi dettagli degli invasivi interventi chirurgici, le orribili sventure secondarie) e la violenza indigeribile che inquina ogni confronto tra il corpo della protagonista e chi ne viene a contatto.
Chi continua a puntare con sdegno il dito contro i ferrigni eccessi dell'horror neo-testamentario di Gibson provi piuttosto a gettare uno sguardo rammaricato a questo piccante polpettone senza vergogna.
E lo faccia in ginocchio, chiaramente :)