Anthonyvm • 15/07/21 22:55
Scrivano - 806 interventi Il titolo mette le mani avanti: una classica storia dell'orrore.
E già qui chi mal tollera la deriva metafilmica post-moderna del genere, popolarizzata da
Scream e portata alle estreme conseguenze in
Quella casa nel bosco, potrebbe avvertire un olezzo fastidioso. L'horror in Italia negli ultimi trent'anni non ha certo avuto un'esistenza facile, tenuto flebilmente in vita da piccole realtà indie, coi vari Zuccon e Bianchini in testa, e saltuariamente portato all'attenzione del grande pubblico coi più o meno graditi ritorni di Avati e Argento, o coi coraggiosi revival dal piglio internazionale di Zampaglione. Ma i segnali di un crescente interesse nei confronti delle nostre produzioni di genere si stanno a poco a poco concretizzando: appena un anno fa Netflix distribuiva in tutto il mondo
Il legame, che a livello prettamente tecnico ha poco da invidiare agli scare-pack commerciali d'oltreoceano. La critica più immediata, e giustificata, che si può muovere al suddetto prodotto (e a una buona fetta dei titoli che non hanno dovuto appoggiarsi a distributori indipendenti per essere diffusi) è l'essenziale assenza di originalità: anziché sfruttare gli insegnamenti degli attuali maestri (Aster, Eggers, ma anche personaggi più “pop” come James Wan) per plasmare un nuovo codice orrorifico nostrano, si finisce semplicemente per pigliare un po' dall'uno e un po' dall'altro mettendo insieme semplici opere d'imitazione. Che, in materia horror, è un po' quello che facevano gli “artigiani” negli anni '70 e '80, i cari vecchi Mattei, Fragasso, D'Amato, certo Fulci, prolifici seguaci dei trend imperanti all'epoca, soprattutto in vista di una distribuzione estera, eppure capaci di forgiare una poetica macabra e identitaria nella maggior parte dei loro lavori: autori in braghe da exploiter, o viceversa. È pur vero che allora i budget erano modici, la domanda alta e i ritmi di realizzazione industriali: i risultati di rado potevano vantare una confezione che superasse l'asticella ghettizzante della serie B. Oggi, vuoi per la maggior fruibilità di mezzi, per la comodità delle nuove tecnologie, o per l'approccio appassionato delle nuove leve alla materia, anche senza un budget multimilionario si possono ottenere risultati notevoli e graficamente in linea coi successi internazionali. E non bisogna certo dimenticare il sostegno offerto dai fondi regionali, importanti motori in quello che si spera essere un processo di rivalutazione e di rilancio di un cinema di genere che si possa dire “totum nostrum”. Ma è tristemente raro notare un vero sforzo creativo in tale direzione. È forse una questione di mercato? Può essere che uno jumpscare con posseduti sbavanti sia nel breve termine più retributivo di un'ombra dal taglio espressionista? Tutto è possibile. Sia come sia, pur sdoganati i limiti di caratura visiva (se adesso un fotogramma di de Feudis può passare per un Aster, difficilmente un Mario Gariazzo poteva ricordare un Friedkin), gli script faticano enormemente a ritagliarsi un cantuccio personale nella sterminata scia di tendenze e luoghi comuni che hanno finito per marginalizzare l'horror agli occhi della critica più snob. Ed è forse proprio questa consapevolezza che ha spinto De Feo (che conta già l'interessante
Il nido nel curriculum) e Strippoli (all'esordio nel lungometraggio) a percorrere strade un po' meno convenzionali, girando un meta-horror che partendo proprio dai cliché finisce per contorcerli e rimodellarli secondo i dettami dell'autoironia, per il diletto dei fan accaniti e degli abituali consumatori.
Tutto molto interessante, ma Craven, per dirne uno, lo faceva già nel '94.
Insomma, ormai anche la trovata di giocare coi famosi topoi del genere e di includere nell'equazione umoristica il rapporto che si instaura fra prodotto e fruitore dello stesso è più che risaputa. Detta in altre parole, anche volendo scherzare con arguzia sulla ridondanza delle formule, oggidì si finisce per incepparsi in altre formule che ormai sono ben consolidate. Bisognerà quindi prepararsi a quel senso di déjà-vu che, se poteva far sorridere in
Quella casa nel bosco o in
Behind the mask, ora fa sollevare solo il lato del labbro più benevolo e indulgente.
Ma veniamo a questo
A classic horror story: che c'è di così classico? Una protagonista tormentata per una o più ragioni? C'è: Matilda Anna Ingrid Lutz è una giovane apprendista incinta con una madre che insiste perché abortisca al più presto. Una coppia di turisti, forse per accattivarsi la simpatia di un pubblico anglofono? C'è anche quella, composta da Yuliia Sobol e Will Merrick. La presenza turbolenta? Certo: Peppino Mazzotta, medico scontroso e dal passato fosco. Può forse mancare il ragazzotto un po' imbranato che però è un cinefilo incallito e cita Raimi e Cameron fra un discorso e l'altro? Ovviamente no, e prende il volto di Francesco Russo.
Detta così, potrebbe sembrare l'ennesima collezione di macchiette; in realtà lo script pare molto attento a dare l'opportuna volumetria alle sue pedine, evocando backstory convincenti e coinvolgendole in scambi di battute il più trainanti possibile. Ampliamo pure gli orizzonti: la sceneggiatura, in generale, non è scevra di fini sottigliezze (il ricorrere a immagini o parole che si allacciano all'infanzia e alla gravidanza, silente dilemma morale della protagonista attorno al quale si dipana l'intero incubo, da bambolotti abbandonati a padri che rimpiangono figlie lontane), che tuttavia tendono a smarrirsi nel profluvio di escamotage e colpi di scena telefonati che compongono un'intelaiatura narrativa ordinata quanto prevedibile (anche, come si diceva, nella scelta di prendersi in giro da sé).
Tornando al plot, la (non tanto) allegra compagnia si dirige in Calabria a bordo di un camper, ma dopo un incidente stradale (il solito animale sulla carreggiata) si ritrova nel bel mezzo di una foresta da cui sembra impossibile uscire (la strega di Blair insegna). Aggiungiamo all'equazione una casa di legno disabitata in cui i nostri trovano rifugio, piena zeppa di foto inquietanti in cui contadini mascherati nella miglior tradizione del folk-horror si dilettano in misteriose cerimonie. E la situazione peggiora quando tali individui si materializzano sul luogo, accerchiano l'edificio e trucidano i nostri superstiti in sanguinosi rituali.
Il citazionismo è feroce, dalle modalità di tortura (occhi infilzati ripresi come in
Zombi 2, gambe spezzate in stile
Misery) all'impatto scenografico (l'omone di vimini con vittima sacrificale ancora viva al suo interno), e certamente gli aficionados si divertiranno a cogliere questo o quel riferimento.
Scarse tracce d'inventiva, ma soffermandosi sull'aspetto meramente formale dell'operazione c'è solo da applaudire: eccellente fotografia notturna, con tocchi angoscianti e invasivi di luce rossa nelle sequenze più concitate; montaggio audio curatissimo in supporto a una colonna sonora azzeccata; i due registi sanno il fatto loro e non temono di dimostrarlo, sfoggiando campi e controcampi arditi, piani sequenza glaciali, ralenti sontuosi e un uso intelligente del fuori campo (forse non il massimo per i gore-seeker, ma poco male). Lodevole pure la coniugazione degli stilemi del subgenre con un pizzico di cultura italica: in questo caso si parla di un presunto culto pagano dedicato a Osso, Mastrosso e Carcagnosso, leggendari fondatori della mafia, il che offre anche interessanti chiavi di lettura per i risvolti dell'ultima mezz'ora, di cui è difficile dissertare senza inciampare nello spoiler.
Bastano simili particolari per innalzare l'opera dal mare magnum della routine? Non esattamente: per quanto pressoché inappuntabile sotto il profilo tecnico, la storia è davvero troppo derivativa per suscitare un reale interesse, o almeno una forma di gradimento obiettivo che possa ignorare il naturale campanilismo di uno spettatore del Belpaese.
Ed è qui che De Feo e Strippoli, paradossalmente cercando di balzare al livello successivo, non fanno altro che cambiare l'indirizzo di arrivo dei loro omaggi. Approdiamo quindi al metacinema: telecamere, malsano filmmaking, arte mortale al servizio di un osservatore voyeur... Ironicamente, in questo modo i paragoni con altre pellicole sono anche meglio definibili, così che si transita dal semplice abuso di cliché a qualcosa che ha più le sembianze di un connubio di plagi. Ma anche di questo i due autori sono consci. Bisogna forse quindi salutare questo omaggio agli omaggi come un esperimento meta-metafilmico, a mo' di scatole di cinesi, una sorta di estremo sberleffo allo sberleffo? Qualcuno potrebbe annuire. E allora restiamo in attesa di un finale all'altezza, la definitiva rottura della quarta parete, il lampo di genio che faccia zittire i “polemiconi” una volta per tutte. E gli ultimi due minuti, in effetti, ci provano sul serio! Ma per quanto l'ultima sequenza sia adeguatamente maligna e caustica (con più di una frecciatina ai polemiconi di cui sopra), anch'essa ricorda troppo da vicino epiloghi sardonici già visti in gran copia sul grande schermo. Un altro metacliché da aggiungere alla lunga lista, e i polemiconi possono polemizzare ancora un po'.
Ciò che forse avrebbe potuto davvero fare la differenza, a questi punti, è la travolgente figura della Lutz. Bellissima e delicata quando trema in balia dei suoi aguzzini, macchina da guerra dalla battuta pronta al momento della rivalsa. Aggiungendo dieci minuti al metraggio e trasformando il climax dell'ultimo atto in una specie di massacro catartico a suon di fucili e coltellacci in stile
You're next o
Finché morte non ci separi (un prestito cinefilo in più non avrebbe fatto danno!), strati e strati di incertezze e delusioni ancorati alla prevedibilità del racconto si sarebbero persi sotto la gratuità godereccia dei litri di sangue e la gloria trionfale del sottinteso riscatto parafemminista. Insomma, stiamo o non stiamo parlando dell'eroina di Revenge? Non è un caso che una delle ultime immagini (una Lutz provata e tumefatta che cammina al rallentatore sulla spiaggia, mentre i bagnanti scioccati la circondano scattando foto e registrando video coi loro inseparabili cellulari) sia probabilmente la più estasiante, pittorica e memorabile del lotto.
Ma sono solo punti di vista.
Un film imperfetto, dunque, che tuttavia si presenta benone, e, in virtù del suo perfido umorismo, riesce a sembrare meno pretenzioso di quanto in effetti sia. Se si è disposti a fare appello alla propria clemenza, specie se l'horror è un genere che si bazzica con regolarità, vale certamente una visione. Dopotutto, come scrive PADAN_666, “il regista è italiano, va supportato”.
Mr.chicago
Jdelarge
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Alex-1971