Una vera sorpresa: dal momento che l’IMDb lo riportava fra le decine di adattamenti del romanzo, vista la considerevole durata e tenuto conto del sottotitolo “The true story”, mi aspettavo una versione fedelissima al racconto della Shelley.
Niente di più sbagliato.
È sin da subito evidente la volontà di muoversi controcorrente, giocando antiteticamente coi luoghi comuni ai quali la tradizione (letteraria e cinematografica) ci ha da sempre abituati. Si pensi alla tecnica di resurrezione della creatura: niente fulmini, saette o temporali, in questo caso è la luce solare la fonte della vita.
Come ciliegina sulla torta, in una sorta di “gioco dei contrari” che ricorda certi divertiti esperimenti della Hammer (si pensi al Mr. Hyde avvenente seduttore ne
Il mostro di Londra, o la sua variante al femminile in
Barbara il mostro di Londra), la creatura nasce bella e gentile, con un corpo perfetto e una docilità bambinesca.
Inizialmente il bell’aspetto del mostro permette allo stesso e al Dr. Frankenstein di mostrarsi insieme in pubblico e di godere dell’ammirazione della società altolocata. Non è così scontato vedere un film di Frankenstein col mostro in veste dandy che sfoggia le proprie doti linguistiche con signore di mezz’età…
Ma iniziano i dolori, in quanto il corpo della creatura degenera in fretta: si parte da pustole dietro le orecchie (un po’ come nell’ottimo
Frankenstein di Bernard Rose, che deve parecchio all’opera di Smight) e si procede con vere e proprie deformazioni facciali. La situazione è così grave che lo stesso Victor spingerà il mostro al suicidio. O almeno così crede…
Tutto questo accade nella prima parte; la seconda (in origine il film fu trasmesso in TV in due puntate) è ancora più bizzarra, con l’introduzione di un certo Dr. Polidori (simpatica citazione shelleyana) e della sua creatura femminile, esteticamente perfetta ma completamente pazza. E Victor Frankenstein dovrà fare i conti col suddetto mad doctor, la seducente femmina e la sua “vecchia” e (giustamente) vendicativa creazione.
Ciò che più colpisce, a prescindere dalle divertenti e impreviste svolte del plot, è il sottotesto gay che percorre l’intera pellicola, talvolta sottilmente, talaltra con maggior evidenza. Del resto, sin dai tempi di James Whale il cinema frankensteiniano non è del tutto estraneo a una chiave di lettura omosessuale (dall’emarginazione del mostro all’atto stesso della creazione sine-muliere).
Si pensi al duo di scienziati formato da Victor e Henry, in questa versione un collega del primo, nonché colui che introduce il protagonista agli esperimenti di resurrezione: due giovani uomini che si oppongono alle leggi della natura e collaborano alla nascita di un nuovo individuo (il quale, tra l’altro, dopo la morte prematura di Henry, ospiterà proprio il cervello di quest’ultimo).
Elizabeth, la fidanzata di Victor, profondamente contraria alle diavolerie dei due medici, viene dipinta non come un modello di etica e di morale, ma come una presenza ostile (e decisamente antipatica), che rischia di rovinare i piani “contronatura” di Victor e Henry. Insomma, è assai più facile parteggiare per i due scienziati ribelli che per la “savia” donnina tradizionalista.
Anche il momento della resurrezione, con Victor e il “mostro” l’uno di fronte all’altro, entrambi giovani e attraenti (“You are beautiful!” dice Victor, “Beautiful!” risponde la creatura), sembra uscito da qualche novella di Oscar Wilde.
Ma la metaforica “relazione” fra Victor e la creatura non è destinata a durare, specie dopo il decadimento di quest’ultima. L’involuzione è semplicemente estetica, ma Victor, deluso e pieno di vergogna, pensa sia meglio sbarazzarsi del suo “piccolo sporco segreto”, per dedicarsi alla rassicurante normalità della propria vita coniugale con Elizabeth. Ed è qui che il mostro assume definitivamente il ruolo di personificazione dell’omosessuale ostracizzato, rifiutato dal mondo per qualcosa di cui non ha colpa.
Un’altra frecciatina contro la “mostruosità” della normalità, ben contrapposta all’innocenza del diverso, risiede nella figura di Prima, la ragazza creata da Polidori (deliziosamente Seventies i giochi di luce e di colori durante la scena della resurrezione): il suo aspetto impeccabile cela in realtà follia e malvagità (si rivelerà infatti seduttiva, manipolatrice, e persino sadica quando per poco non strangola un gattino).
Non mi sono stupito quando, ricercando informazioni sulla pellicola, ho notato che la sceneggiatura è opera di Christopher Isherwood e Don Bachardy, scrittori apertamente omosessuali, la cui relazione non sempre facile (fra differenze di età e di “fama”) richiama con una certa ironia alcuni passaggi della pellicola. Sembra che lo script originale abbia subito alcune modifiche (e infatti la coppia di sceneggiatori ha ammesso di non aver apprezzato il risultato finale), ma anche così il subtext è evidente e aperto a riflessioni.
A prescindere dalle interpretazioni allegoriche, il film in sé è comunque ben realizzato: gli SFX hanno poco da invidiare alle contemporanee produzioni hammeriane (non a caso il nome dell’effettista Roy Ashton compare nei credits), la regia di Smight adeguata, tanto che in più occasioni ho finito per dimenticarmi della natura televisiva dell’opera.
Simpatici anche i riferimenti (spesso gustosamente british) a precedenti opere, frankensteiniane e non: l’inizio à la
The asphyx (Victor decide di “porre un rimedio” alla morte dopo che il fratello affoga accidentalmente), il braccio semovente cui Henry ha dato vita (che ricorda affini immagini viste nei fisheriani
La maschera di Frankenstein e
La vendetta di Frankenstein, nonché, per il modo di muoversi, la mano omicida de
Le cinque chiavi del terrore), l'eccentrico personaggio di Polidori (che ricalca la figura del Dr. Pretorius ne
La moglie di Frankenstein).
C’è da chiedersi se la durata complessiva di tre ore fosse necessaria: probabilmente, limando un po’ i tempi, ne sarebbe uscito un prodotto più scorrevole e facilmente fruibile, ma anche così com’è ha abbastanza elementi interessanti per tenere a bada la noia. Anche il cast, con nomi rispettabili quali James Mason (nei panni di Polidori) e John Gielgud (che curiosamente avrà una parte anche nel brutto TV-movie
Frankenstein del 1984), fa la sua figura. Michael Sarrazin è un mostro simpatetico che è impossibile non compatire, mentre Leonard “Romeo” Whiting è un Dr. Frankenstein un po’ scialbo ma accettabile.
Fra le tante rielaborazioni del mito della Shelley, questa è una delle più inventive e piacevolmente stravolte.