Sankofa, ovvero, tornare alle proprie origini per prendere consapevolezza del proprio passato e del proprio presente.
Gerima affronta il tema dello schiavismo (forse uno dei primi registi africani a trattare l'argomento), partendo dalla modella afroamericana Mona (
Oyafunmike Ogunlano), che durante un servizio fotografico in Ghana, viene rapita dagli spiriti, e trasportata in una piantagione sulle sponde del Mississippi ai tempi della schiavitù, vivendo così una vita a ritroso (probabilmente incarnandosi in una sua antenata) nei panni di una schiava.
Impreziosito da immagini potentissime che ricordano certo cinema jodorowskiano (il volo del falco, il piano sequenza che sorvola le piantagioni, Mona che esce dalle acque in pieno stile jessfranchiano, le grotte oscure zeppe di schiavi in catene, la marchiatura a fuoco di Mona denudata e umiliata), sottolineate dallo score ipnotico di David White con chiaroscuri jazz, dove Gerima non è esente da mostrare crudezze tipiche alla
Addio zio Tom (le frustate a morte, il padrone bianco che abusa sessualmente, e continuamente, di Mona, il parto post mortem, i negri incatenati e imprigionati alla gogna, matricidi, una scena di esorcismo in chiesa degna del più truce "possession movie", con Mona incalzata dal prete che le mette sul seno la croce e le ordina di abbandonare il dio pagano dei negri, con lei nuda e presa a scudisciate, l'avvelenamento, la spietatezza dei padroni bianchi, la religione che annebbia e offusca le menti, dove Gerima mostra immagini cristologiche contrapposte alle crudeltà perpetrate sui neri), dove le ambientazioni scarne e spoglie ne aumentano l'atmosfera opprimente.
Poi con la rivolta degli schiavi verso l'opressione del padrone bianco (che finirà nel sangue), l'opera perde mordente e scade nella convenzionalità, non aggiungendo nulla sul tema, con una banalizzazzione dei caratteri (i neri sono tutti buoni e sottomessi, i bianchi, compreso il prete, delle belve sanguinarie senza pietà) e momenti noiosi (i racconti intorno al fuoco sulle mitologie africane, il nero rivoluzionario dai capelli rasta), tra musiche tribali e tramonti rosso sangue, facendo apparire il tutto come una specie di
Radici dalle sfumature horror.
Certe volte ingenuo narrativamente, ma spezzettato da un fascino suggestivo innegabile, forse troppo lungo (quasi due ore), coraggiosamente ambizioso senza averne i mezzi e intinto in una spiritualità afro francamente eccessiva (la santificazione di Nunu), con chiusa finale pasoliniana sui primi piani di un popolo che cerca la sua rivendicazione nel mondo.
Evidenti limiti cinematografici, in un racconto comunque sincero e , a tratti, doloroso, ma che non si discosta poi molto da altre pellicole sullo schiavismo raccontate dai bianchi.
Notevole la fotografia di Augustin Cubano.
Da riscoprire almeno per verificare la "vitalità" dell'oscuro, e lontano, cinema africano. Anche se, personalmente , nel genere, preferisco di gran lunga l'exploitation di
Mandingo.Il film era tra le candidature per l' orso d'oro al 43 ° Festival Internazionale del Cinema di Berlino.