Grande Godard nel periodo migliore, che riscatta con la bellezza formale l'odore di stantìo che promana dall'insopportabile paccottiglia ideologica (ma agghiacciante la sensazione che in certi ambienti italiani avvengano tuttora analoghi dibattiti). Fra straniamento brechtiano, film nel film e pseudo-documentario JLG gira un film ultra-pop (straordinaria la fotografia di Coutard) e - forse involontariamente - di satira corrosiva, che liquida il '68 prima che avvenga. Presto arriverà il collettivo Dziga Vertov e il periodo d'oro di Godard finirà.
Anticipatore dei tempi (il '68 arriverà solo un anno dopo), Godard gira uno dei suoi film più celebri che a prescindere dai discorsi politici ed ideologici (su cui a tratti si può ancora oggi essere d'accordo e a tratti no) viene ricordato soprattutto per i suoi procedimenti stilistici e narrativi che verranno ripresi, spesso in malo modo, da uno stuolo sterminato di imitatori. Decisamente pop da un punto di vista formale, si mantiene bene, sempre visivamente parlando, nonostante siano passati ormai più di quarant'anni dalla sua uscita.
Sospeso tra adesione al ribollire ideologico dei giovani marxisti e sarcasmo, il film offre un ventaglio di parole d’ordine e contraddizioni degli studenti francesi pre ’68. Godard li chiude genialmente in un coloratissimo appartamento pop a discettare di rivoluzione e terrorismo, come bambinetti che recitano una commediola borghese, con tanto di servetta premurosa. Notevole l’impianto strutturale, molto complesso, stratificato e metafilmico. Un’opera gustosa, che stronca sul nascere le future velleità di tanti nipotini del comunismo armato.
Film emblema del cosiddetto comunismo da salotto, così esasperato nel suo didascalismo (politico ovviamente) e nella sua contradditorietà da sembrare quasi una satira volontaria. A livello narrativo a parte parole, parole e parole c'è davvero poco e a risollevare il tutto abbiamo una confezione pop spassosissima e coloratissima impreziosita da un'indubbia capacità nella composizione delle inquadrature e da un'impostazione per l'epoca tutt'altro che convenzionale. A rischio noia, ma ricchissimo di spunti.
Il peso della datata zavorra ideologica oggi si sopporta come documento storico - i confusi fermenti rivoluzionari studenteschi alla vigilia del Sessantotto - e comunque si alleggerisce dinanzi al valore cinematografico di un'opera «in fieri», che attesta lo stile sperimentale, sincopato e poliedrico di Godard, componendo un collage pop di didascalie, piani sequenza, disquisizioni politiche, artistiche e filosofiche e intrusioni metafilmiche. Ma la regia di Godard è pure maestra di fine, sensuale erotismo e le due graziose interpreti (la Wiazemsky e la Berto) ne sono brave discepole.
MEMORABILE: L'operatore che entra battendo il ciak; la delirante canzone su Mao.
Una montagna di libretti rossi domina la scena, monocolore in questo senso e anche negli spossanti dibattiti dei giovanissimi pseudo rivoluzionari. Allo stesso tempo coloratissimo nell'altra montagna di parole che, tradotte nella realtà e nella storia, si sono rivelate solo un trampolino per un tuffo nel vuoto, con la spiacevole scoperta della mancanza di acqua ad attutire l'impatto. Anticipatore, Godard crea un film non per o contro qualcosa (un'ideologia) ma, come uno specchio, riflette immagini e parole, per far riflettere, allora come ora.
Sospeso tra il primo periodo del suo cinema (di strepitosa inventiva visivo-linguistica) e gli anni più direttamente "interventisti" e "agit-prop", La chinoise è un film figlio delle sue stesse inconciliabilità e delle proprie antinomie. A prevalere sono tuttavia ancora i fremiti del genio godardiano, a partire dal gruppo di piccoli (intesi come giovani) borghesi chiusi in un interno dall'angelo sterminatore maoista, costretti a far i conti con la loro età a dispetto delle proprie pseudo convinzioni. Pensieri deboli incontenibili in una sovrastruttura.
MEMORABILE: La presentazione di Yvonne, la compagna "sguattera" e prostituta; Il dialogo tra Veronique e il filosofo Jeanson.
Il laboratorio politico di Godard: l'arte non imita più la realtà, ma afferma la realtà della sua rappresentazione facendosi strumento dichiarativo, educativo e, infine, rivoluzionario. La polarizzazione tra Comunismo russo e Maoismo, revisionismo e integralismo, esprime una dialettica insolubile, coagula nello scontro ideologico l'umana contraddizione. Il punto di osservazione – e di non ritorno – è caustico, supera il particolarismo del piccolo gruppo - uno scampolo di società - scruta al divenire, si fa ossimorico: dopo, il cinema di Godard, non potrà più essere lo stesso. Brechtiano.
Alcuni ragazzi vogliono creare un gruppo terroristico rivoluzionario. Sotto l’influenza di Mao e anticipando gli scontri sessantottini, Godard condanna l’imperialismo americano e il clero. Temi caldi stimolanti per alcuni dialoghi (il comunismo che minaccia oppure no; sul treno) e condannabile per la lotta armata. Visivamente è destrutturato con stacchi, immagini fisse e riprese che richiamano i dipinti di Mondrian: sperimentale, innovativo e ancora moderno.
MEMORABILE: I cinegiornali di Léaud; I Club Méditerranée come dei campi di concentramento; Lumière visto come un pittore di immagini.
Come sempre, Godard o si accetta o si rifiuta. Qui ci vogliono cinque minuti per accettarlo, dopo di che non solo ci si diverte, ma si accetta in toto la conversazione metacinematografica che il regista vuole avere con noi: un meraviglioso e sorprendente teatro satirico sulle ambizioni, storture e allo stesso tempo profonde riflessioni dei giovani (pre)sessantottini, con un ritmo fenomenale (Mao Mao è un motivetto irresistibile) e attori che rendono perfettamente i loro ruoli. Bellissime le parole di Francis Jeanson sul treno.
MEMORABILE: Il montaggio e il suo intreccio con le musiche, che lasciano l'idea di un mondo rivoluzionario e violento e allo stesso tempo adolescente.
Annusando l'aria, Godard capta i fermenti pre-sessantottini e mette in scena un kammerspiel su un gruppo di studenti maoisti che, chiusi in un appartamento parigino, tra una disquisizione e l'altra sulla rivoluzione proletaria, progettano un'attentato dimostrativo... Godard destruttura i dialoghi, frantuma le sequenze, sovverte i codici della rappresentazione, ma la sua rivoluzione cinematografica somiglia tanto a quella propugnata dai personaggi: velleitaria, spocchiosa, involontariamente ridicola. Se il suo intento era parodistico, è difficile coglierlo causa noia e fastidio.
Girato come l'apocalittico Week-end alle porte del maggio francese, il film inaugura il peiodo "maoista" di Godard e consacra la sua musa e compagna Anne Wiazemsky a icona del cinema contestatario. Difficile dire se Godard prendesse sul serio le farneticazioni di questo squinternato gruppetto di rivoluzionari o se il tutto ne fosse una sarcastica parodia. Di sicuro però inaugurò uno stile e un linguaggio che diedero vita, soprattutto in Italia, a non pochi e spesso maldestri tentativi di imitazione. Vedibile come documento di un'epoca lontana e irripetibile, nel bene e nel male.
MEMORABILE: La canzoncina "Mao Mao" cantata, nella versione italiana, dai dimenticati Gian Pieretti e Peppino Gagliardi.
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