Miniciclo:
Quegli amori balordi
Capitolo sesto:
nel gorgo della ninfomania
Opera durissima, in alcuni frangenti spietata, un elaborazione del lutto che sfocia nel girone degradante della ninfomania, per scendere di più verso il baratro della solitudine e della negazione dell'autostima
Cinema femmineo (e femminista) che racconta l'universo di tre donne in una fredda e anonima Liverpool (madre che muore improvvisamente di un tumore al cervello, le due figlie accusano il colpo, l'una immersa nella sua gravidanza e nell'ordine prestabilito, l'altra perde la trebisonda conciandosi come una puttana da strada, mollando lavoro e fidanzato, concedendosi a sconosciuti in una febbrile voglia di sesso, per colmare la dolorosa perdita della madre-e indossando, quasi depalmianamente, la pelliccia, gli occhiali e la parrucca della madre defunta- in una discesa da girone dantesco tra strade, pub, telefoni pubblici, appartamentini squallidi, cinemini, presa da appettiti sessuali sempre più incontrollabili, girovagando di notte alla disperata ricerca di un pò d'amore, dopo essere stata abbandonata da tutti-fidanzato e migliore amica compresi-)
Echi da
In cerca di mr. Goodbar, e ricerca frenetica nella perversione per colmare la disperazione interiore, come farà la Huppert nell'hanekiano
La pianista
Straordinaria la Morton, agnello sacrificale di una vita allo sbando, macchina da presa sempre addosso , scrutata, spogliata, inseguita, fatta a pezzi nell'animo e nel corpo, in una narrazione realistica, senza fronzoli o orpelli, che ricorda certo cinema di Ken Loach o il primo Scorsese.
Presa da un'impaziente voglia di masturbarsi continuamente, di chiamare i suoi amanti occasionali al telefono (c'è anche chi le dà un numero inesistente), finendo tra le grinfie di uomini perversi (l'orinata addosso a moscacieca), non riusciendo a liberarsi dal dolore per la perdita della madre, presenza spettrale che le condiziona la già-precaria-esistenza (l'inquietante telefonata postmortem della genitrice, che assume i tratti di un horror dell'anima e dell'abisso della solitudine)
Cinema vitale, livido, nevrotico, aspro, a volte sgradevole , ma sincero, senza peli sulla lingua, condotto dalla debuttante regista già padrona di una narrazione sicura e estremamente personale.
L'anello, il vaso con le ceneri, la bara che arde nel forno crematorio mentre, in un montaggio alternato, la Morton abborda in un cinema uno sconosciuto (Tom) per fare selvaggiamente l'amore, le sue crisi isteriche, i continui litigi con la sorella, emarginata per colpa di una vita borderline (le staccano il telefono, la migliore amica le ruba il fidanzato, scippata da una gang di ragazzine per strada, sola, sperduta nella notte di una indifferente Liverpool) ubriacandosi per rimorchiare manzi nei pub
Ma solo chi cade può risorgere, in un finale che e una fioca luce di speranza, cantando "Alone again" in un locale, per finire su di una spiaggia ferreriana dove il futuro è donna.
Un vero peccato che questa intensa pellicola sia finita nel dimenticatoio, e altrettanto dispiace che il talento della Adler si sia fermato quì, autrice acuta, di fortissima personalità e per nulla accomodante
Da segnalare la fotografia del loachniano Barry Ackroyd e incisiva (anche solo per pochi minuti in scena) Rita Tushingham (nel ruolo della madre)
Premiato (con tutti i meriti) al festival di Toronto e Edimburgo
La Adler (che viene dal proletariato dopo lavori umili per mantenere suo figlio) si ispira al libro della psichiatra Estela Welldon
Madre, Madonna, puttana, donando al suo primo (e ahimè, per ora) unico film una forza narrativa degna della migliore new wave britannica novantiana (quella dei Danny Boyle e dei Mike Leigh per intenderci)
Piccolo cult assolutamente da riscoprire.
Sequenza cult amorbalordiana: Iris , nel suo vagabondare nel baratro della solitudine, bussa all'appartamento del taurino Max. Lui le propone di bendarsi e accovacciarsi. Iris obbedisce, Max si cala la lampo dei pantaloni e le orina addosso...