Forse il film più celebre di Bergman, non è all'altezza della sua fama: allegorico oltre ogni limite, zeppo di simbolismi e rimandi alle più diverse rappresentazioni artistiche (dalla scultura ai quadri di Dürer), rivela più di una carenza sotto l'aspetto della sceneggiatura, quasi mai interessante e capace di sprecare l'idea che più meritava spazio nell'economia del film: il rapporto del protagonista Max Von Sydow con la Morte (rappresentata da una figura vestita di nero il cui volto spicca una specie di muta da sub), quindi la partita a scacchi che l’avrebbe dovuto salvare dalla fine prematura. Invece Bergman preferisce concentrare l'attenzione su un’anonima compagnia di guitti alle prese...Leggi tutto col figlioletto da poco nato, responsabili dei momenti meno “pulsanti” del film. Molto ben girate sono al contrario le parentesi riguardanti i monatti, che incappucciati entrano in paese annunciando (e minacciando) l'arrivo della peste; segno che Bergman, se vuole, sa creare paesaggi di grande suggestione. La recitazione del cast è quasi sempre di stampo teatrale, con i lunghi monologhi di Von Sydow a spezzare spesso il ritmo già di per sé abbastanza blando. Affascinante la fotografia in bianco e nero, ma il magnetismo del SETTIMO SIGILLO non è dato da questa quanto piuttosto dagli inquietanti primi piani aperti su volti stupefatti, da alcune sequenze degne di nota come quella finale, famosissima, con la Morte che danza in campo lungo con i suoi ultimi clienti sul dorso di una collina. Nel complesso però il film delude, abbondando di dialoghi poco mordaci e in definitva penalizzato da un soggetto troppo povero.
Inquietante opera di Ingmar Bergman, dal titolo e dall'incipit fantastici. Non è esattamente una passeggiata, ma le scene di massa sono di grande vigore, quasi disturbanti. Ma ciò che non si dimentica è quel mare, la morte che arriva parlando con secchezza, la resistenza sulla scacchiera, che vale la salvezza della famigliola. Da guardare solo se si ha voglia di pensare e se si osa correre il rischio di mettersi, a film concluso, di umore non allegrissimo...
È un film al limite dell'Assoluto. Non esiste alcuna altra opera uguale, per profondità. È si stracolmo di simboli, ma proprio per questo è necessario riflettervi su e non lasciarsi soltanto andare ad impressioni seducenti. Si tratta di uno dei capolavori dell'Arte - e non solo del cinema - mondiale.
MEMORABILE: Questa è la mia mano, posso muoverla e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io... Io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte.
Ottimo film di Bergman dalla fama piuttosto meritata. Non tutto è perfetto, dato che non mancano varie lungaggini (concentrate più che altro nel primo tempo) e che alcune parentesi da commedia sono decisamente fuori luogo. La pellicola comunque possiede una forza ancora oggi non indifferente. L'ottima fotografia, con molti richiami gotici e l'insieme di elementi simbolici e inquietanti, costituisce un'atmosfera di una suggestione unica. Notevole.
Pesantissima opera di Bergman: geniale, con dialoghi spettacolari, è necessario visionarla innumerevoli volte per cogliere i particolari di ogni scena ed il significato che vi si voleva infondere. Unica nel suo genere, riflessiva e molto profonda; l'idea di fondo è già geniale di per sé. Indimenticabile il dialogo iniziale e lo scanzonato scudiero. Un film al quale bisogna dare i meriti che si è guadagnato.
MEMORABILE: "Ti toccano i neri...". Si addice alla Morte.
Il film più decantato di Bergman ma certamente non il suo lavoro più riuscito. L'idea di partenza (sebbene si ispiri a varie leggende) è fulminante e la messa in scena, soprattutto in alcuni tratti, è inimitabile. Tuttavia vi sono alcuni simbolismi un po' troppo facili e manca un vero coinvolgimento emozionale dello spettatore. Forse la causa va ricercata in un ritmo abbastanza dilatato. In ogni caso un'opera molto bella (specie dal punto visivo) e di indubbio valore, la cui fama però è leggeremente superiore ai suoi meriti.
Capolavoro. Da sempre un simbolo del cinema Von Sydow nei panni del viaggiatore che deve giocare a scacchi con la morte (l'ottimo Ekerot). Girato in un perfetto bianco e nero, con scenografie isolate e ottime. Da vedere senza indugio. Ottimo ottimo ottimo.
Grande espressione di cinema, carico di simbolismi religiosi. La paura dell'uomo di fronte all'ignoto, il fatto di non essere certi che Dio esista veramente. L'uomo che per credere deve vedere e toccare con i propri sensi. Ma davanti alla morte la fede torna e tutto è più chiaro. Straordinario. La partita a scacchi con la morte (visivamente angosciante anche nei momenti ilari) è sicuramente una delle scene cinematografiche più famose. L'esito tuttavia non è affatto scontato: il cavaliere decide egli stesso il proprio destino e quello dei propri amici.
Peccato che dopo un inizio così potente e originale (bellissima la raffigurazione della morte e gli scacchi) la storia perda consistenza altalenandosi tra il serio e il faceto, tra l'angoscia esistenziale del cavaliere Antonius (e la denuncia dei fanatismi) e la spensierata allegrezza della famiglia di saltimbanchi (e la voce doppiante di Jof non aiuta). Tanta suggestione visiva (si pensi ad esempio alla donna muta) non trova, insomma, una buona sponda nell'armonia del racconto. Ricorda Kurosawa ma con minore forza. Tre pallini.
MEMORABILE: Ogni volta che Bengt Ekerot entra in scena.
Di ritorno dalle crociate un cavaliere incontra la morte e intraprende con essa una partita e scacchi... Uno dei film più famosi, se non il più conosciuto di Bergman, che racchiude in sé la tematica che verrà sviluppata nel cineme Bergmaniano ovvero la ricerca della prova tangibile dell'esistenza di Dio. Qui viene raffigurata alla perfezione un ambiente medioevale ricco di paure e superstizioni. Alcune scene sono memorabili.
MEMORABILE: La processione dei penitenti e la confessione.
Cavaliere gioca a scacchi con la Morte: una sfida che è anche una lunga interrogazione sul senso dell'esistenza. Un vero e proprio mistero medievale, sacro e profano al tempo stesso, così umano da sfiorare il senso del divino, e così solennemente tragico da non aver paura del ridanciano: ma profondamente moderno nell'ossessivo dubbio esistenziale che è al tempo stesso paura e desiderio della morte. Sono un'infinità le scene straordinariamente evocative per il loro portato simbolico. Potente e imprescindibile.
Capolavoro di Bergman che riesce a sfruttare al meglio il bianco e nero, creando un buon contrasto con il personaggio che impersonifica la morte, il quale giocherà una partita memorabile a scacchi con Antonius Block per dargli la possibilità di batterlo e rimanere in vita. I dialoghi sono eccellenti e nell'insieme ci sono molte scene interessanti. Per cogliere tutti i dettagli e tutte le peculiarità c'è bisogno di minimo due visioni.
MEMORABILE: Un uomo cerca di fuggire dalla morte arrampicandosi invano sopra un albero.
Il film più celebre di Bergman. Forse non il più intimo o il più profondo, ma comunque ricco di allegorie e rimandi storici. L'atmosfera apocalittica, creata in modo perfetto, fa assurgere la pellicola al livello di un affresco medievale, con i personaggi impegnati in gesti simbolici e archetipali. Cast eccellente, tanto di cappello per Ekerot nei panni della Morte. Celeberrima riflessione sul destino umano, sul peccato, sull'esistenza di Dio e su quella partita che, ahinoi, siamo comunque destinati a perdere.
MEMORABILE: L'arrivo della Morte e il dialogo che segue; la danza macabra finale.
Nonostante l'aver acquistato lo status di culto ed essere riconosciuto tra i massimi film intellettuali, la visione de Il Settimo Sigillo oggi non è particolarmente remunerativa. Gli attori teatrali, i tempi orrendamente diluiti e una sceneggiatura ricca di allegorie e sbrindellamenti simbolici l'han fatto invecchiare piuttosto male. Sicuramente rimangono delle sequenze ancora memorabili, gli appestati e ovviamente la splendida partita a scacchi con la morte. Per il resto, il regista svedese ha fatto di meglio.
Più che per le metafore esistenziali e gli interrogativi teologici sui misteri della fede, della vita e della morte, il film della titanica partita a scacchi con la Grande Falciatrice – basato su un atto unico scritto dallo stesso Bergman nel 1954 - si rivela nel suo immenso fascino figurativo e nella ricchezza di riferimenti all’iconografia religiosa con cui fa rivivere un cupo Medioevo funestato da guerre, epidemie, roghi e angoscia. Almeno due le immagini-simbolo entrate negli annali del Cinema: la Morte con il mantello spiegato in procinto di avvolgere Von Sydow e la processione finale.
Primo film di Bergman che guardo e ne sono rimasto affascinato. Molto temi come la morte, la vita, l'esistenza, vengono trattati in maniera magistrale. Tutti i personaggi sono metafore dei modi di essere dell'uomo: lo scudiero di Antonius con il suo scetticismo, il fabbro e la moglie con i loro sciocchi battibecchi e la loro pochezza, la ragazza muta che solo nella fine ritrova la parola. Grandiosa la figura della morte.
Un raro gioiello d'antiquariato, si potrebbe definire questo piccolo capolavoro di Bergman. Datato 1956 e ambientato nel medioevo Il Settimo Sigillo mostra, attraverso un pregevole montaggio parallelo, diverse storie di altrettanti esponenti del mondo medioevale. Si va dai cavalieri ai saltimbanchi ai ladruncoli di infima categoria. Le varie vicende dei personaggi finiscono poi per intrecciarsi tutte, senza dimenticare il leit-motiv cornice dell'opera, la partita a scacchi tra il cavaliere crociato Antonius Black e la Morte. Bellissimo.
MEMORABILE: L'arrivo della Morte; la sequenza con la processione degli appestati.
Più teatro che cinema, questo conclamato capolavoro di Bergman assomiglia ad un'analisi storico-riflessiva dei grandi interrogativi che l'uomo si è sempre posto sin dai suoi albori. Forse c'è chi subirà di più il fascino di questi enigmi e chi invece considererà l'opera un po' stantia soprattutto per la scelta dell'ambientazione medievale, avulsa dal concetto moderno di morte e religione. Al di là di questo vanno riconosciuti l'abile utilizzo del b/n e una regia sopraffina. Per me, comunque, sono **1/2.
La Morte, Il Saltimbanco e Il Cavaliere; Il Giudizio Universale, La Vergine e Il Diavolo. Il Carro, L'Eremita e L'Appeso. Come scorrendo una silente e ieratica galleria di Tarocchi, Bergman si appropria della statura iconografica e del senso allegorico dell'arte medioevale e compone un film illustrativo, pudico, sospeso sulle questioni che da sempre atterriscono l'uomo. Il grande cinema del maestro è da venire: ma per la devozione umana, l'austerità formale e il rigoroso spiritualismo che professa, per la schiettezza avversa all'intellettualismo, rimane un film paradigmatico e irriducibile.
Un film che mi scava dentro ogni volta che lo rivedo. Ci propone di riflettere su interrogativi fondamentali e lo fa con linguaggio asciutto, ritmo epico e serrato, fotografia in bianco e nero ancor oggi emozionante. L'interpretazione è straordinaria e accompagnata da un doppiaggio di altissimo livello. Fiaba, tragedia, commedia fuse in un classico che non cessa di parlarci.
Una visione cupa e pessimistica (più che realistica) pervade l'intera pellicola, mitigata talvolta da qualche risata degli abitanti dei villaggi. La storia si struttura come la ricerca, da parte del protagonista (raffigurante, probabilmente, lo stesso regista), di un conforto, un Essere supremo, ma soprattutto di un senso da attribuire a questa vita che sembra esserne priva, al di là delle verità religiose indimostrabili. Ben costruite le figure di Jöns e, soprattutto, della Morte. Meriterebbe un voto alto solo per il tema esistenziale.
Quintessenza bergmaniana. Il regista firma la sua Divina Commedia in un tripudio di allegorie, contrappassi e crismi cardine. La poetica di un esistenzialismo incontrovertibile si disvela in un ventaglio di personaggi di una ponderazione estrema: un'Armata Brancaleone di figure schematiche che compongono un mosaico di incessante irrequietezza spirituale convergente nello ieratico Antonius Block. Il confine tra finito e infinito è labile e passa non dalla presunta onniscienza della Morte, ma dallo sguardo privilegiato dell'estroso, mosso da una bizzarria considerata fuori luogo, in realtà trasversale.
Verbosa, riflessiva, profondamente intellettuale, l'opera di Bergman si avvale di registri dichiaratamente teatrali (d'altronde lo script è tratto da una piece dello stesso regista) per raccontare, attraverso episodi profondamente simbolici, i drammi esistenziali dell'uomo, la sua ricerca disperata di un Dio che non si vede mai, l'horror vacui cosmico, l'eterno rapporto amore/odio verso l'unico assoluto concretamente esperibile: la Morte. Un profondo ed evocativo cenacolo filosofico, in cui la storia si pone come punto di raccordo e nulla più.
MEMORABILE: L'inizio della partita a scacchi con la Morte; Il dialogo con la strega, Jof, allegoria dell'arte che vede ciò che gli altri non vedono.
Il lavoro più celebre di Bergman, anche se non il migliore perché imperfetto. Si basa sull'idea, rivelatasi vincente, del dialogo con la Morte; il crociato disilluso pone continuamente quesiti, soprattutto esistenziali, alla dama in nero durante la celeberrima partita a scacchi. Soffre qualche momento di stanca quando si sofferma sulle vicende della famiglia, ma in alcuni frangenti ha lasciato un segno indelebile.
Io non capisco come si possano girare oltre 90 minuti con personaggi penosi e insignificanti, a cominciare da quell'ingessato cavaliere amletico; tirar fuori la peste, farci sopra disegnini e proclami ancora più ridicoli e concludere col dr. Watson più elementare che la morte non ha segreti o spiegazioni, arriva quando vuole ed è solo quel tapino dell'uomo a crearsi l'immagine di Dio con tutte le paranoie annesse per non poterlo vedere. Col racconto del sigillo che completa il manicaretto e mi fa scappare a gambe levate per dimenticare l'esperienza.
MEMORABILE: La faraonica scena della montagna con la tempesta prima e la catena umana poi; I pensieri dello scudiero, che è l'unica mosca bianca del film.
Un film non di certo facile, con un inizio bellissimo in riva al mare, ma che perde di interesse nei dialoghi della parte centrale. Certo le tematiche affrontate sono forti e integrano sia il rapporto tra il cavaliere e la fede quanto l'eterna dicotomia vita-morte, cercando di dare un senso a quello che è il ciclo dell'esistenza umana. Molti i rimandi medievali e religiosi. La figura della morte non si dimentica, così come la partita a scacchi, ma nel complesso risulta troppo noioso là dove avrebbe dovuto spiccare il volo. Non male.
MEMORABILE: Il primo incontro tra Antonius e la Morte.
Cavaliere crociato gioca la sua vita a scacchi con la Morte. Ambientazioni essenziali per un Medioevo che è cornice del rapporto temuto con la fine della vita: ottimi i primi piani statici di Bergman e i giochi d'ombre sulla scacchiera. I saltimbanchi aiutano a far pensare a un normale quotidiano familiare che senza pericoli imminenti nessuno pensa possa essere in scadenza. Grande forza visiva per i volti dei due protagonisti.
MEMORABILE: Le conseguenze della peste; La Morte che fa da taglialegna; La carrellata sulla fila di uomini lungo la montagna.
Celeberrimo, ma non il migliore di Bergman. Gli interrogativi esistenziali (la morte è la fine di tutto?) vengono posti con fare didascalico e non vengono mai filtrati dalla visione registica. A redimere il film e con forza, è la rigorosa messinscena (splendido il bianco e nero) che riecheggia la lugubre e profonda spiritualità dell'immaginario medioevale (la partita a scacchi, gli attori). In parte Sydow, ma il pallido Ekerot (assurto addirittura a simbolo) e il beffardo cinismo di Bjornstrand gli rubano la scena.
Film d'ambientazione medievale che contiene gli elementi caratteristici di tale epoca. Il plot del cavaliere che gioca a scacchi con la Morte è molto affascinante e ormai un classico del cinema (anche delle tematiche horror). Il saltimbanco visionario, che viene deriso per questo, è l'unico elemento di speranza in un'opera dominata dalla morte. Ottime la fotografia, che riprende il paesaggio nordico, le scenografie e le location. Non mancano una strega, la peste e riferimenti al diavolo... ma ci sono pure situazioni da commedia.
È un'indagine a tutto tondo sul senso profondo dell'esistenza, quella di Bergman, che cerca di abbracciarne la totalità del diapason emozionale: non solo le piccinerie, le sciagure e le malvagità, ma anche la quotidianità, le sue tensioni, le sue gioie, i suoi momenti comici e grotteschi. Rimane tuttavia film più importante (e citato) che bello: troppa, persino materica la distanza tra le variazioni su commedia da avanspettacolo e le scene più propriamente drammatiche. Verosimile come spaccato di vita, meno come trattato filosofico.
MEMORABILE: La prima comparsa della Morta; La rissa alla locanda; La condanna della giovane strega; Il finale.
Da una ricerca esistenzialista e un interrogativo sul mistero della fede si arriva alla pura arte visiva: questa è l'opera di Bergman. I difficili interrogativi che il personaggio principale (ma non solo) si pongono vengono in realtà trattati poi in maniera quasi accennata e la rappresentazione di un mondo che attraversa profondi cambiamenti viene dipinta in maniera eccelsa da Bergman, con inquadrature e luci fantastiche. In alcuni momenti la lentezza è dura da affrontare, ma si è ripagati dai fantastici dettagli, come la figura della morte.
MEMORABILE: La processione che si flagella mentre intona il Dies Irae: da brividi.
Opera di impressionante acume, soprattutto da un punto di vista metaforico e teoretico, in cui l'orrore della peste è di gran lunga superato dagli orrori messi in campo dal fanatismo religioso e dalla stupidità umana. Bergman gira in modo lucidissimo, con un sapiente uso del bianco e nero, giocando col grottesco e con il fantastico, in un racconto che è quantomeno affascinante. Buona la prova del cast, in cui spicca il compianto Von Sydow al primo ruolo importante. Imperdibile.
Non è il capolavoro assoluto di una filmografia tanto ricca di opere eccelse, ma se si pensa a Bergman la prima immagine che balza alla mente è quasi inevitabilmente quella del crociato dal volto ascetico di Von Sydow che gioca a scacchi con la Morte nerovestita dalla maschera lunare. Imperfetto per un eccesso di simbolismi che vanno ad appesantire una storia già esemplare nella sua iconicità, ma di quell'imperfezione che, essendo parte integrante di un'opera amata, finisce per diventare essa stessa preziosa. Visivamente bellissimo, da vedere e rivedere per rinnovare il piacere.
Un film che ha fatto la storia del cinema europeo e ha sancito l'ingresso nell'immaginario collettivo moderno della rappresentazione della morte che gioca a scacchi (personaggio magicamente interpretato da Ekerot). Le immagini colpiscono dall'inizio, si viene immersi in un'atmosfera molto realistica, crociate e peste dominano il tempo, ma contemporaneamente ci si perde nel fantasy puro quando il protagonista (immenso Von Sydow) e il suo gruppo hanno a che fare con "il padrone dell'abisso". Metafore ed esistenzialismo che fanno riflettere tutti.
Nella Svezia medievale dove infuria la peste, un cavaliere è alla ricerca di Dio. Incontra dei commedianti, un fabbro, alcune donne ma soprattutto la morte e la sfida in una partita a scacchi. Splendide inquadrature, poetici dialoghi, lo scudiero del protagonista che ha un lessico shakespeariano fanno di questo film un capolavoro. Bravissimi Max Von Sydow e il resto del cast. Bella fotografia in bianco e nero. Il film è quasi tutto girato in esterni sul mare.
MEMORABILE: La scena in cui i commedianti offrono delle fragole e del latte al cavaliere; Le visioni dell'attore; La scena del pittore.
Il film più famoso di Ingmar Bergman, che è anche il più lugubre e uno dei più allegorici, strettamente legato alle rappresentazioni medievali del tema della morte. Ha passaggi di grandissimo interesse, impreziosito da momenti di alto simbolismo difficili da capire ma come sempre ricchi di grande fascino. Il ritmo è leggermente più veloce che in altri film del regista, ma è comunque lento e da seguire con grande attenzione. Sarebbe stato meglio dedicare più spazio alla figura della Morte e alla sua partita a scacchi col protagonista. Cast all'altezza.
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Sono rimasto molto colpito da questo film, perchè mette in luce secondo me un interrogativo importante, una domanda che ogni essere umano penso si sia posto almeno una volta nella vita, ovvero la ricerca di una prova tangibile di Dio per superare la paura della morte e del nulla.
Cosa ne pensate?
Aldilà di quelle che possono essere le considerazioni a carattere religioso (che uno creda o meno), qui la riflessione è sul dopo. Il modo di affrontarlo di Bergman mi colpisce molto, perchè il protagonista non si preoccupa di ciò che è stata la sua vita terrena (ciò se è meritevole o meno di aspettarsi qualcosa), ma se esiste un qualcosa dopo la morte.
Anche l'ambientazione è molto suggestiva....
«La scena finale con la Morte, che danza allontanandosi con i viandanti, fu girata negli atri del Cortile Reale. Dopo che avevamo già impacchettato ogni cosa per la sera, cominciò il maltempo. All’improvviso vidi una nube strana. Gunnar Fischer tirò su la cinepresa. Molti degli attori erano già tornati nei propri alloggi. Alcuni inservienti e turisti danzavano ai loro posti, senza avere idea di che cosa si trattasse. Quell’immagine, divenuta poi così famosa, fu improvvisata in pochi minuti. Così andarono le cose». (da Immagini di Ingmar Bergman).
Il film viene omaggiato da Marco Tullio Barboni, nel suo cortometraggio "Il grande forse", attraverso un lungo dialogo tra l'attore Philippe Leroy e un personaggio che interpreta la morte.