Intervista a Roberto Leoni

23 Gennaio 2018

UN MARTEDI' DA LEONI
(a cura di Ellerre)
 Grazie a mio fratello ERRELLE (Leonardo) ho avuto il piacere di incontrare e conoscere lo sceneggiatore e regista ROBERTO LEONI, uomo d’altri tempi, persona colta e spiritosa, grande conversatore, capace di lasciar trasparire la sua passione per il cinema nei racconti e nei ricordi di una lunga e collaudata esperienza. Durante una piacevole e conviviale serata (era il 28 novembre 2017) ospite da lui insieme a mio fratello, sono riuscito a rivolgergli numerose domande, preparate assieme a ZENDER, inerenti i suoi principali lavori e non solo.


ELLERRE: Come sei arrivato a scrivere il primo film, cioè Eat it?
 ROBERTO:
Era un mio racconto, pubblicato sulla rivista "Numero" e aveva un titolo… insomma, era il 1968 e tutto era esagerato e io stavo preparandomi a fare il poeta maledetto che attraversava l’America in moto sulle orme di Walt Witman e Jack Kerouac… insomma il titolo era forse un po' macchinoso ma suonava anticonvenzionale e rivoluzionario; era: “Grottesco Fantacapitalistico a Sintassi Cinematografica”. Parlai di questo racconto a Franco Bucceri, un attore che aveva iniziato a fare lo sceneggiatore con Renato Izzo (quello che poi sarebbe diventato il famoso direttore di doppiaggio e il capostipite di tutte le attrici e doppiatrici Izzo). Bucceri fece leggere il racconto al produttore Giuseppe Zaccariello e questi decise di realizzare il film. In realtà Zaccariello - me lo raccontò dopo - non aveva avuto nessuna voglia di leggere quel racconto dal titolo astruso, ma quella sera aveva mangiato due carciofi alla giudia (quelli fritti interi nell’olio bollente) e gli erano rimasti sullo stomaco: non riuscendo a dormire, disperato, sveglio e con un bicchiere di bicarbonato in mano, alle quattro di notte, in attesa di digerire, aveva letto il racconto e nonostante l’acidità di stomaco e l’insonnia gli era piaciuto e aveva deciso di trasformarlo in un film.

ELLERRE: Sei stato dove giravano il film o hai solo scritto il racconto da cui è tratto per poi lasciare che “le cose facessero il loro corso”?
 ROBERTO:
Ho partecipato alla preparazione sia nella scelta del cast (Paolo Villaggio, allora esordiente e Frank Wolff, un caro amico) e ai sopralluoghi per alcune location. Avrei dovuto anche dirigere il film insieme a Francesco Casaretti, ma l’improvvisa malattia e la morte di mia madre mi impedì di essere presente sul set e il film venne affidato a Casaretti. Durante la preparazione feci con Zaccariello una gaffe tremenda: un giorno mi presentò la sceneggiatura di Eat it con alcune modifiche di Joseph McLee, un famoso sceneggiatore americano, già consulente dei suoi due film precedenti che erano stati due grandi successi (A ciascuno il suo, il bellissimo film di Elio Petri con Volontè tratto dal romanzo di Sciascia e Escalation, acclamato esordio alla regia di Roberto Faenza). Nonostante questi illustri precedenti, trovai le modifiche di McLee tremende e feci una scenata, insultando quella bestia incompetente dell’americano, che purtroppo non esisteva ma era lo pseudonimo dello stesso Zaccariello! Bucceri e Casaretti, che sapevano la cosa, non mi avevano avvertito sperando che io mi ribellassi e facessi togliere tutte le modifiche! A onor del vero devo dire che col tempo Zaccariello poi mi diede ragione e rimanemmo amici…

ELLERRE: Da
Eat it passasti, proprio grazie a Zaccariello, a Reazione a catena di Bava, dove subentrasti a Dardano Sacchetti per una settimana. Quale fu il tuo reale apporto al film (che come sai è diventato un antesignano del genere slasher)?
 ROBERTO:
Zaccariello doveva fare questo film con Bava che credo fosse, come si dice in gergo, “incartato” nella storia; durante le riprese aveva cioè fatto delle modifiche che non “quadravano” più con la sceneggiatura di Dardano Sacchetti e non ne veniva fuori. Credo che ci fossero state polemiche tra la regia, la sceneggiatura e la produzione e inoltre forse mancavano anche i soldi... Insomma, a un certo punto Zaccariello intervenne nella produzione e mi tirò dentro, anche perché c’erano stati problemi durante le riprese di Eat it e io, superato il lutto di mia madre, ero intervenuto aiutandolo a sistemare il film in maniera che potesse uscire in sala. Così conobbi Bava nella vecchia Fono Roma, quella che stava vicino piazzale Flaminio, proprio dove c’era stata la casa di Trilussa… Mario Bava mi aspettava nella sala di proiezione, era in giacca e cravatta, un tipo magro che fumava e mi fissava attraverso il fumo mentre scorrevano gli spezzoni del film. A un certo punto gli dissi: “Secondo me quello dovrebbe morire con un’accettata”. “Può essere un’idea!”, mi rispose. E cominciammo ad ammazzare idealmente i personaggi del film con tutti che ci guardavano come fossimo pazzi. Lui era molto distinto e non avresti mai detto che potesse essere uno che amava l’horror. Non so perché mi sembrava un medico, uno che allora si definiva come un distinto professionista… Io ero un po’ più selvaggio con gli occhiali, la barba e i capelli lunghi. Uno dei protagonisti del film era, se ben ricordo, il fratello di Gian Maria Volonté (Claudio Camaso era infatti nel cast, ndr), che interpretava un assassino; era presente in sala e sembrava così fosco da sembrare davvero un assassino anche nella vita! Parte del film era già stata girata, ma di alcune sequenze successive potrei esserne responsabile. 
L’idea dell’accetta per esempio, che a Bava era piaciuta: perché spiegai che si tratta di un oggetto quasi domestico, ma quando lo impugni ha un effetto terrificante e quando spacca la fronte o stacca il collo ne ha ancora un altro: fa quindi effetto due volte. Ecco, quest’idea della moltiplicazione degli effetti dell’arma a Bava era piaciuta. Parlammo a lungo perché la struttura del film era “incasinata” ed era raro a quei tempi rappresentare i serial killer; io sostenevo che in un film non devono esserci solo due o tre delitti ma possono essercene anche dieci! Questa idea dei delitti in serie ritorna anche nella sceneggiatura di Santa Sangre, che ho scritto tanti anni dopo per Jodorowsky, dove c’è una morte dietro l’altra. Ma durante il rapporto con Bava Zaccariello nicchiava sui compensi, anzi proprio non mi pagava con il pretesto della produzione in difficoltà, così incontrai Bava ancora una o due volte, poi me ne andai perché avevo ricevuto la richiesta di una sceneggiatura da un’altra produzione.

ELLERRE: Tu con l’horror cosa c’entravi?
 ROBERTO:
Beh, in Eat it per esempio c’era già una componente horror. L’horror mi affascina da sempre perché ha in sé una forma di pietà: l’orrore ti costringe a vedere il lato peggiore della natura umana e quindi a provarne repulsione e a commuoverti per la vittima. La pietà è la cosa più umana che ci sia, assieme alla comicità. L’umanità emerge nell’horror così come nel comico. Ed è universale come la musica, come l’amore, come la poesia. L’horror è sangue, è carne, è fango ma ha sempre una scintilla di vita, di orrenda poesia che brilla e che mi commuove. Come il rospo: è orrendo ma insieme bellissimo.

ELLERRE: Subito dopo scrivesti un film importante Un uomo da rispettare, interpretato da Kirk Douglas, una star di Hollywood.
 ROBERTO:
Erano gli ultimi fuochi di quella che è stata chiamata la Hollywood sul Tevere, una stagione fantastica di occasioni, incontri, possibilità di lavoro. Quando dicemmo al produttore Manolo Bolognini che come protagonista della sceneggiatura che gli avevamo fatto leggere volevamo appunto Kirk Douglas, Manolo ci prese per matti; ma siccome pure lui era stupendamente matto ne parlò a Marina Cicogna che fece arrivare il copione a Douglas che accettò il ruolo e da Hollyvood venne a girare a Roma e ad Amburgo. Kirk Douglas era davvero un uomo e un attore da rispettare: scrupoloso, attento, preparato, perfezionista e protettivo, pur essendo io alle prime armi mi considerò e mi trattò come se fossi stato un celebre sceneggiatore. Dopo gli anni di piombo spensero le luci di Hollywood sul Tevere e ritornai alla normalità con le piccole produzioni.

ELLERRE: Come nascevano le sceneggiature per le piccole produzioni?
 ROBERTO:
Certe produzioni non erano prese in considerazione dalle grandi distribuzioni quali la Cineriz, l’Euro International, la Titanus (per non parlare della Paramount o della Fox); allora l’unica soluzione era bypassarle andando direttamente dai "regionali". Ogni distribuzione aveva, infatti, ed ha ancora nelle varie regioni le cosiddette "capozona", ossia le città capoluogo: Bologna, Palermo, Napoli, Torino, Venezia... Ognuna di queste città aveva due o tre grossi distributori, i quali ricevevano i film delle grandi distribuzioni e li diffondevano capillarmente negli altri locali della regione. Le piccole e medie produzioni presentavano il progetto di un film a una decina di questi grossisti regionali che potevano anticipare i soldi (spesso cambiali o assegni postdatati) per avere il futuro film in esclusiva. Così il produttore mi caricava in macchina e mi portava per esempio a Bologna da un distributore che si chiamava De Petris o De Pedis. Questi faceva un grande pranzo invitando i proprietari delle sale della provincia o della regione. Finito il pranzo, il produttore mi diceva: "Leoncì (Leoncino, un vezzeggiativo che mi ha perseguitato e mi viene rifilato ancora adesso dai veterani del set), racconta il film"; e io raccontavo il soggetto, sceneggiando al momento le sequenze più interessanti. Insomma, una specie di pitch ante litteram. Mentre raccontavo il produttore mostrava e distribuiva ai presenti le locandine del futuro film, poi il distributore capo esortava tutti a pagare una quota per assicurarsi l’esclusiva. Così il produttore raccoglieva una manciata di cambiali e di assegni postdatati che il distributore capo avallava e si ripartiva per la successiva città capozona. Una volta tornati a Roma, avveniva tra me e il produttore una sorta di "trattativa araba" sulla percentuale delle cambiali o degli assegni che avrebbero pagato il soggetto e la futura, imminente sceneggiatura. Generalmente riuscivo a strappare anche una piccola parte in contanti e il resto lo scontavo da qualche “affettuoso zio”, il termine che indicava i “prestasoldi cinematografari” che generalmente erano poco esosi con gli autori perché si rifacevano chiedendo di dare un’occhiata o un’aggiustatina al soggetto della figlia tanto intelligente e studiosa, oppure dell’amante o dell’attrice che intendevano sedurre...

ELLERRE: Per Mio caro assassino, da molti ritenuto tra i più fulgidi esempi di giallo para-argentiano, scrivesti la sceneggiatura con Franco Bucceri a partire da un soggetto vostro. Come nacque l’idea?
 ROBERTO:
Non ti offendere, ma rifiuto la definizione di para-argentiano perché lo spunto di Mio caro assassino nasce dalla mia fissazione per l’innocenza: sono nato a Trastevere nel dopoguerra, ho visto l’orrore ma ho visto anche l’innocenza. Io credo nell’innocenza e mi intrigava l’idea dell’innocenza che sconfigge il male. Il concetto era complesso e quando lo esposi a Bucceri il suo istinto di attore gli fece subito intuìre l’originalità della trama: la bambina, nonostante fosse morta, riusciva a denunciare il suo assassino. Su questa premessa scrivemmo il soggetto che è proprio come viene raccontato nel discorso del commissario alla fine del film (il cosiddetto spiegone, ndr) che è decisamente lungo, ma riesce a tenere inchiodati gli spettatori. Nel film sono stato anche aiuto regista e sollecitai in tutti i modi il regista Tonino Valerii a girare la scena d’inizio con la decapitazione dell’investigatore privato; ma non con l’accetta come per Bava, addirittura con una ruspa. Valeri si affezionò all’idea; ma era una scena complessa da girare e Manolo Bolognini, il produttore, ci guardava perplesso. Il problema era che io volevo che Remo De Angelis, lo stuntman, per aumentare la verità della scena, annaspasse stretto nella morsa della gigantesca tenaglia e non era cosa facile da realizzare: Tonino Valeri e Manolo Bolognini erano responsabili anche penalmente di ciò che accadeva sul set ed erano seriamente preoccupati che lo stuntman rimanesse strozzato. Siccome gli stuntman hanno un lavoro molto saltuario e breve perché la loro entrata in scena si conclude sempre con loro che finiscono subito fuori combattimento, dissi a De Angelis che nel film lo avrei fatto lavorare tanto: “Ti faccio morire ancora”. Difatti lui interpreta anche un impiccato e ancora il ruolo del vecchio barbone che finisce nel fiume. Insomma, ti faccio lavorare tanto e ti faccio pagare tanto, ma devi trovare un modo per girare la scena della ruspa. 
De Angelis, allora, ebbe l’idea di mettersi una gorgiera di ferro attorno al collo per evitare che i denti della ruspa si chiudessero completamente, permettendogli così di annaspare sospeso con la testa nella benna chiusa. La scena è riuscita di grande effetto drammatico, tanto che è stata citata persino da Quentin Tarantino.

Un’altra bella sequenza di cui sono orgoglioso, realizzata assieme al responsabile degli effetti speciali che era spagnolo (il film era una coproduzione con la Spagna), è quella del trapano Black & Decker che sevizia la maestrina. Oltre alla pompetta con il sangue dietro la lama, abbiamo avuto l’idea della lama di stagnola al posto di quella di acciaio. Quando gira veloce la stagnola rimane rigida, ma se si avvicina alla pelle si piega e non ferisce. All’attrice però non dicemmo niente! Eravamo sicuri che non sarebbe successo nulla, ma a lei uscì un’espressione di autentico terrore! Per due volte la mano guantata che sorregge la lama rotante è quella dell’“effettaro”, ma in una terza scena è la mia e io avvicinai tanto la finta lama che l’attrice urlava davvero, completamente terrorizzata. Un’ altra cosa interessante fu che all’uscita del film, in un articolo di giornale (non dico quale), io e Bucceri venivamo definiti degli “sciacalli” che sfruttavano il famoso caso di cronaca di una ragazzina di 13 anni, figlia di un importante industriale, che era stata rapita e uccisa. Il critico del giornale aveva in pratica messo in relazione il caso Sutter con la trama del film. Saltai in macchina e mi presentai in redazione. Il critico si spaventò anche perché con la barba e i capelli lunghi e varie ore di viaggio avevo forse un’aria stravolta e poco rassicurante, ma reagì coraggiosamente: “Lei non può offendersi per i miei giudizi!” mi disse. Io gli risposi che era un incompetente perché per realizzare un film dal soggetto alla proiezione in sala occorrevano allora almeno dieci mesi e il sequestro della ragazzina risaliva a sette mesi prima. Come potevo essere lo sciacallo che aveva sfruttato quel tragico fatto?!!”. Il critico pubblicò la rettifica.

ELLERRE: Hilton fu scelto subito come protagonista?
 ROBERTO:
No. Noi avevamo scelto Giancarlo Giannini e facemmo con lui le varie sedute di adattamento della sceneggiatura, ma la distribuzione, nel suo ottuso conformismo commerciale, allora non vedeva Giannini in un ruolo drammatico; gli preferì George Hilton e Manolo Bolognini accettò…

ELLERRE: Passasti poi a sorpresa alla regia con un film tedesco, Es Knalt und die engel singen,  che la distribuzione italiana intitolò Mena forte, più forte... che mi piace. Come capitò l’occasione? e ti fu proposta da subito la regia o fu una casualità a farti passare dietro la macchina da presa?
 ROBERTO:
Quella storia l’avevo scritta assieme Bucceri e il film era intitolato “L’ammazzi tu o l’ammazzo io?”; poi qualche genio della distribuzione gli cambiò titolo secondo la moda del momento che era dominata dai successi di Bud Spencer e Terence Hill. Il film in origine doveva essere un western da realizzare con Nello Meniconi, l’organizzatore generale de La dolce vita. Nello mi stimava e precedentemente mi aveva proposto anche di lavorare a Per grazia ricevuta di Nino Manfredi. Ma Manfredi aveva, per me, un difetto grave: era sempre insoddisfatto del lavoro e pieno di dubbi e ogni giorno ricominciavamo da capo. Siccome io ero pagato a tranches (piccolo anticipo per iniziare, primo tempo, secondo tempo, revisione, stesura finale), dopo un paio di settimane l’anticipo era esaurito e stavamo ancora alla prima pagina, così con una certa ingratitudine e poca lungimiranza, me ne sono andato. 
Nello mi perdonò e ci richiamò chiedendoci una storia western divertente. Nacque così “L’ammazzi tu o l’ammazzo io”. Allora per la prima stesura di una sceneggiatura ci mettevamo dieci, quindici giorni di full immersion; poi la ritoccavamo successivamente. Andammo a scriverla sul lago di Vico. Fuori stagione. Prenotai una camera isolata e silenziosa, arrivammo e andammo nella nostra stanza isolata e ci mettemmo subito a lavorare perché eravamo in ritardo. Infatti una delle poche gioie dello sceneggiatore è sempre stata quella di prendere i soldi dell’anticipo e non fare niente finché il produttore non chiamava per la terza volta, bestemmiando ed esigendo le prime pagine scritte. A quel punto si rispondeva: “Tranquillo, ho appena finito la prima stesura del primo tempo, la correggo e te la porto…” e si cominciava a lavorare davvero. C’era una particolare ebbrezza nel ricevere da un esoso e avido produttore l’equivalente di 2500 euro e non scrivere una riga per settimane… Quella volta sul lago di Vico eravamo in una simile condizione e davvero in ritardo, quindi cominciammo subito a lavorare dividendoci le scene da scrivere e Bucceri mi disse: “Però io la padrona non l’ammazzo... l’ammazzi tu!” “No, no" – gli risposi - "io devo già ammazzare il marito e i figli, non voglio ammazzarli tutti io”. Naturalmente parlavamo dei personaggi del film e non sapevamo che la proprietaria dell’albergo con il marito e due figli ci stessero ascoltando. All’epoca c’era il terrore dei brigatisti rossi che rubavano, facevano i sequestri proletari, uccidevano e quelli dell’albergo si erano insospettiti: due tipi che arrivano di notte e fuori stagione in un albergo isolato, barbuti e frettolosi, si chiudono subito in camera senza scendere per la cena…  
A un certo punto scendemmo a prendere un caffè e il proprietario che era al bancone per tutta risposta ci mostrò dei fucili da caccia: “Visto che belle armi abbiamo?”. Io e Bucceri ci guardammo pensando “Ma dove siamo finiti?”. “Io ho pure questa bella pistola”, aggiunse la proprietaria aprendo un cassetto in cucina. Poi arrivò un tipo baffuto e magro che ci venne presentato come un caro amico di famiglia, pure lui armato. Conversando l’amico di famiglia cominciò a fare domande e noi gli raccontammo che eravamo sceneggiatori. Lui si mise a ridere. Era il maresciallo dei carabinieri che i proprietari impauriti avevano chiamato in soccorso, sicuri che stavamo preparando una strage… Quando finimmo la sceneggiatura Nello Meniconi era impegnato in un’altra produzione cosi demmo il copione a qualcuno che aveva un accordo di co-produzione con la Germania e questi lo passò poi a Dieter Geissler, un grande produttore (per capirci, è quello che aveva prodotto Ludwig di Luchino Visconti), il quale ci disse: “Lo produco io, però vorrei cambiare l’ambientazione”. Niente più western insomma. Ci inventammo allora i gangster dell’epoca del proibizionismo. Recentemente ho rintracciato una copia del film in Finlandia, con i sottotitoli giapponesi e quello che l’aveva mi ha mandato una copia in vhs tenendosi l’originale perché in quel film ci sono le musiche dei Les Humphries Singers che per i cultori del genere sono molto importanti. Il film l’ho firmato con lo pseudonimo di Butch Lion. Dieter figura anche come regista ma nella sola Germania (lo fece per questioni legali). L’ambientazione Anni Trenta piacque molto e questi Les Humphries Singers, va detto, evocavano bene i cantanti dell’epoca. Siccome la Germania aveva aperto un canale con la Cina girammo il film a Hong Kong, poi un po’ in Spagna e in Germania. E’ un film originale e strano - mezzo musical e mezza commedia con inserti di karatè - che mi è servito molto per fare esperienza di regia in due continenti e in tre nazioni.

ELLERRE: Era la tua prima regia?
 ROBERTO:
No, avevo già fatto una regia molto particolare: 40 minuti di un mediometraggio per la televisione dal titolo “I guardiani”. La cosa incredibile è che ho scoperto solo di recente che il mio soggetto era molto simile al racconto “Squadra riparazioni” di Philip K. Dick da cui poi è stato tratto il film con Matt Damon I Guardiani del destino. Un caso clamoroso: il mio mediometraggio è simile al racconto e al film. Era la storia di alcuni speciali, misteriosi agenti che curano il destino degli uomini; ci vinsi anche un sacco di premi, ma nel contempo fu una storia sfortunata, perché quegli agenti misteriosi sembravano una setta segreta che governava il mondo e proprio in quegli anni scoppiò il caso della P2. Avevo fatto una proiezione in Rai ricevendo i complimenti e la garanzia che l’avrebbero acquistato e invece quando il giorno dopo telefonai, non c’era più il funzionario di riferimento e non trovai più nessuno. In realtà il mediometraggio doveva essere il “pilota” di una serie e ne conservo ancora una copia in pellicola. È una storia misteriosa, sembra che casualmente io abbia scritto una specie di preistoria della P2.

ELLERRE: Per i fratelli Brazzi scrivesti Giro girotondo... con il sesso è bello il mondo, poi Il gatto di Brooklyn aspirante detective con Franco Franchi senza Ciccio e con Pistilli.
 ROBERTO:
Dal 1972 al 1978 ho avuto un grave problema familiare, mia moglie si è ammalata ed è morta a 32 anni lasciandomi con due figli piccoli. Così ho dovuto scrivere film “alimentari”: quelli cioè che scrivi quando in banca sei già in rosso e ti arriva il conguaglio della luce o del gas e magari anche certi arretrati delle tasse; o addirittura ti arriva la raccomandata del collegio dei tuoi figli ricordandoti che sei in arretrato di tre mesi con le rette. In quel caso, non avendo altro reddito, scrivi qualunque cosa e sopporti pure che qualche benevolo critico filosofeggi sul fatto che “avvilisci il tuo talento”. I film per cui sono accreditato sono molti meno di quelli che ho realmente scritto. Alcuni sono anche andati a Venezia, altri a Cannes ma io lì ho svenduto le sceneggiature e non posso rivelarne i titoli. 
A nome mio figurano circa 70 film, in realtà ne ho scritti almeno 100. Una trentina appartengono a quel periodo, li ho scritti ma non li ho minimamente seguiti né mi sono interessato alla loro realizzazione.

ELLERRE: In Come una rosa al naso scrivi per Gassman e la Muti, due divi. Come fu la genesi del film?
 ROBERTO:
Il primo soggetto era di Ugo Tucci, il produttore della Variety Film e il film lo diresse Franco Rossi, ma io avevo scritto la prima stesura della sceneggiatura per Giorgio Capitani, che secondo me era più adatto a questo genere. La Variety però lo passò a Franco Rossi che essendo anche uno sceneggiatore lo revisionò commettendo, a mio giudizio, l’errore di dare eccessivo spazio a Gassman. La storia era divertente, con Gassman che fa il gentiluomo inglese ma in realtà è un siciliano arrivato anni prima a Londra per salvarsi da una faida paesana; il boss che l’ha salvato gli manda però lì la figlia, che è "come una rosa al naso: vergine è partita e vergine deve tornare”. Il problema è che la figlia è Ornella Muti, all’epoca di una bellezza sfolgorante, che arriva a Londra decisa a liberarsi da quel retaggio medievale che è la verginità. Così Gassman, prima tutto atteggiato a gentiluomo inglese libertario e spregiudicato, si trova costretto a diventare un occhiuto guardiano della virtù.

ELLERRE: Con Il letto in piazza parti da un romanzo di Nantas Salvalaggio. Come ci si pone quando si scrive partendo da un lavoro di altri? Avete variato molto rispetto all’opera originale?
 ROBERTO:
Generalmente quando mi capita coinvolgo l’autore. Mi lascio ispirare dal romanzo e poi propongo alcune varianti più cinematografiche, più visive e meno letterarie. Salvalaggio però quella volta era assente per un viaggio o impegnato in un reportage… Variammo quindi abbastanza rispetto all’opera originale, ma l’idea del libro era comunque bella e originale. La prima stesura che avevamo fatto era pensata per Giancarlo Giannini ma poi, come sempre succede, la produzione cambiò cast.

ELLERRE: Negli Esecutori scrivete sia soggetto che sceneggiatura con Lucidi per Roger Moore e Stacy Keach, una grossa produzione. Avesti modo di conoscere Moore, che all’epoca era al top della sua popolarità dal momento che stava interpretando i suoi tanti 007?
 ROBERTO: 
Il soggetto e la sceneggiatura erano solo miei e di Bucceri; poi Lucidi, una volta che Roger Moore accettò la storia, intervenne su indicazione di Manolo Bolognini per “ridimensionarla” e allora pretendemmo che la firmasse per prendersene la responsabilità. Conobbi Roger Moore durante la preparazione del film: era cortese, elegante, pignolo e ironico e quindici anni dopo trovandomi a Juan Les Pins a cena con il produttore Marcello Danon, quello del Vizietto, Roger Moore che era in un tavolo accanto con Tom Selleck mi ha riconosciuto; Danon, compiaciuto di avere al suo tavolo due star di Hollywood, ha offerto champagne per celebrare l’incontro.

ELLERRE: California era un western crepuscolare girato molti anni dopo il tramonto del genere, con uno degli eroi di allora come protagonista, Giuliano Gemma. Come mai l’idea di resuscitarlo riproponendo tematiche ormai desuete, nel 1977?
 ROBERTO:
Sono sempre stato, quando ho potuto permettermelo, contro corrente, così in un’epoca in cui il western era dato per morto, ho voluto rivendicare l’eternità del genere perché come l’Iliade e l’Odissea il western è un classico assoluto dove l’eroe combatte contro il Male (personificato da prepotenti, violenti, traditori, assassini, insomma dalla feccia dell’umanità) e quindi funziona sempre, in ogni cultura e in ogni latitudine. Tanto è vero che il film, crepuscolare e malinconico ma anche feroce e con una guizzo di speranza finale, ebbe successo di pubblico e di critica: Morandini lo definì “Degno del migliore Leone”. Giuliano, che in molti casi era stato usato più per la sua simpatia e per le sue prestazioni atletiche che per le doti di attore (quando invece ha avuto al possibilità di esprimerle come nel Prefetto di ferro, in Corbari e nel magnifico Deserto dei tartari è stato sempre un ottimo interprete), ricoprì il ruolo di California, per la prima volta quello di uno sconfitto e di un disilluso, con sentimento e impegno fino al riscatto finale.

ELLERRE: In Come perdere la moglie... e trovare un’amante la sceneggiatura fa spesso ricorso a gag comiche piuttosto abusate.
 ROBERTO:
Avevamo scritto il film per Pasquale Festa Campanile, regista simpatico e intelligente, ma il produttore per cui lavoravamo ebbe dei problemi e subentrò Gigi Borghese, che era il marito di Barbara Bouchet e che impose la moglie. Barbara Bouchet è come dire… un po’ rigida, ma soprattutto essendo una tedesca nata in America non capiva bene lo spirito delle battute italiane. Il cambio di cast costrinse Pasquale Festa Campanile a cambiare il copione perché certe gag Barbara non le accettava o non le riteneva spiritose e Pasquale ricorse al mestiere, inserendo cioè situazioni già collaudate sempre sostenute da Johnny Dorelli, oppure divagando con inserimenti diversi. La parentesi in montagna, ad esempio, è stata inserita perché a Gigi era stata offerta una promozione da parte di un’organizzazione delle settimane bianche, così spedì tutti sulla neve.

ELLERRE: Arriviamo a Vieni avanti cretino, diventato negli anni un autentico cult movie e simbolo stesso della comicità di Banfi, tanto che viene segnalata una collaborazione dell’attore alla sceneggiatura tua e di Bucceri. Quanto c’è di Banfi nella stessa?
 ROBERTO:
Qualche volta, fortunatamente non spesso, si legge che il film si avvale anche della collaborazione di Banfi o utilizzando spunti suoi, ma non è affatto vero (qui prende il copione mostrandolo). Come vedete risulta scritto solo da me e da Bucceri (poi legge le sequenze più famose). Vi faccio notare che le battute sono proprio quelle presenti nel film e che quindi non c’è stata nessuna improvvisazione di Banfi e nessuna aggiunta sua. Banfi era ancora poco conosciuto all’epoca e io e Luciano Salce dovemmo insistere per prenderlo, perché a Giovanni Bertolucci non piaceva; lo riteneva addirittura una specie di marchio di Luciano e Sergio Martino. Ma Giovanni Bertolucci aveva appena terminato un film che si chiamava La tragedia di un uomo ridicolo, firmato da Bernardo e che era stato un flop! Quindi Giovanni era in un momento nero e diceva che “dava testate sulla scrivania”. Io e Bucceri passammo a trovarlo e lui ci disse: “Inventatevi qualcosa, anche W la foca 2, o Pierino su Marte, ma procuratemi degli incassi”. L’idea di un film come W la foca proprio non mi piaceva; anche Pierino con Alvaro Vitali mi ripugnava e spiegai a Luciano Salce, a Bucceri e a Mario De Simone (un ex attore divenuto manager di diversi attori tra cui Banfi e che era casualmente presente) il motivo per cui bisognava evitare di scrivere un altro W la foca o un altro Pierino. “La televisione e i dischi hanno ammazzato il bar”, dissi. “Noi siamo cresciuti divertendoci a raccontare a scuola, al bar o dal barbiere le barzellette di Pierino. I ragazzi di questa ultima generazione, invece, al bar ascoltano musica o stanno a casa a guardare i programmi musicali della televisione, così quando al cinema vedono e sentono per la prima volta le barzellette di Pierino che ignoravano, si divertono; come gli adulti, che con nostalgia e indulgenza riascoltarono le barzellette della loro infanzia". Ecco quindi, secondo me, spiegato il successo di Pierino che però è irripetibile, perché era dovuto a una situazione casuale e temporanea. Se volevamo fare un film sicuramente comico dovevamo andare a cercare gli stereotipi della comicità, che sono eterni e sono una decina: il cornuto che non sa di esserlo, l’equivoco fra gli amici che non si capiscono, quello che tradisce la moglie e dice invece che è stato a cena con un amico e l’amico ignaro arriva proprio in quel momento e la moglie lo interroga, quello che viene scambiato per gay anche se non lo è eccetera. Tutte situazioni comiche che esistevano già prima di Aristofane e di Plauto e avevano attraversato i secoli inalterate. Quindi bastava ritrovare questi stereotipi sopravvissuti, cucirli assieme ed era fatta! L’abilità stava nel dare un filo logico e nell’indovinare la scelta. 
Così cercammo tra i ricordi, tra vari testi (dai classici ai misteri buffi medievali, dalla commedia dell’arte fino al varietà) e scrivemmo almeno una ventina di queste situazioni. Poi con Giovanni Bertolucci e Salce preparammo una rosa di attori tra i quali c’era Banfi, l’unico in quel momento libero avendo concluso il contratto con i Martino… Con l’aiuto di De Simone convincemmo Giovanni Bertolucci a sceglierlo con i seguenti argomenti: primo, De Simone avrebbe fatto uno sconto sul prezzo di Banfi accettando anche pagamenti dilazionati. Secondo, Banfi aveva fatto il varietà e quel tipo di comicità gli era congeniale. Terzo, Luciano Salce disse: “Giovanni, facciamo questo esperimento; Banfi è così naif, così… rotondo”. Banfi mi fece anche un regalo per ringraziarmi di averlo “sponsorizzato” (mostra un portasigarette con dedica di Banfi). L’unico apporto di Banfi al film, oltre alla sua indubbia bravura di attore, è stato quello di avere inventato metà della canzone di Filumena, perché mentre giravamo quella scena ci fu un problema tecnico e dovemmo fermarci. Durante la pausa forzata, per recuperare tempo e fare minutaggio con Salce decidemmo di metterci una canzone che Banfi scrisse e che io ricontrollai inserendo piccole aggiustatine. Scrivemmo il testo sulla scala di legno a spirale del vecchio collegio Marymount di via Nomentana, la stessa scala che Banfi poi scende cantando. Invece il famoso sketch della centrale elettrica è una mia modestissima citazione (chiedo scusa per la sfrontatezza) di Tempi moderni di Chaplin mentre la battuta-tormentone “La sua soddisfazione è il nostro miglior premio” come avete già visto è scritta nel copione con tutte le battute e i movimenti di Banfi. Ad ogni modo il successo del film fu soprattutto merito di Luciano Salce: tutti i copioni che ho scritto, esclusi ovviamente quelli per i film che ho diretto, sono stati spesso rimaneggiati dai produttori con il pretesto di ridurre i costi o dai registi con il pretesto di facilitare la comprensione del pubblico, in realtà per semplificare le loro riprese. Per Vieni avanti cretino invece Luciano Salce disse: “Quello che è scritto si gira!”, e così fu. Anche nella sequenza con il sosia di Benigni non c’è alcuna improvvisazione degli attori, tutto quello che dicono è stato pensato e scritto da Bucceri e da me… Il film fu diretto da Salce con una tale leggerezza e ritmo che sembrò davvero che Banfi quelle battute le avesse inventate, Invece non inventò niente. Sono ormai tre volte che Bucceri mi telefona perché vuole che firmi con lui una diffida a Banfi che continua a raccontare che Vieni avanti cretino l’ha scritto, recitato e praticamente diretto solo lui, ma ho spiegato a Bucceri che Banfi ha ottanta anni e con l’età…  poi in fondo ‘sto film non è mica Il settimo sigillo per cui dobbiamo essere ricordati per l’eternità…

ELLERRE: Con L’ultimo guerriero e I cinque del condor ti dai all’action bellicoso, nel primo caso postatomico, tue sceneggiature a tutti gli effetti. Come ti sei trovato ad affrontare tematiche così diverse dalle precedenti?
 ROBERTO:
Io ho sempre avuto la passione per la fantascienza e l’action e ho provato diverse volte a scrivere qualcosa del genere ma nessuno amava la fantascienza anche perché si diceva che ai produttori italiani non interessava, dato che non era e non è nella nostra mentalità. Un dogma assurdo ma persistente, infatti ancora oggi un film come Lo chiamavano Jeeg Robot Mainetti ha dovuto produrlo da solo. Anche I guardiani, che abbiamo visto prima insieme, era un tentativo di fantascienza; ma quello riuscii a farlo perché c’erano i soldi della Rai, anche se poi si arenò. De L’ultimo guerriero  mi affascinava l’idea di un mondo diviso tra ricchi e poveri, dove i poveri, relegati in riserve, sono praticamente preda dei ricchi anche in senso fisico. Doveva sembrare un mondo normale, in cui però tutti sembrano ricchi e belli e in cui tutto è perfetto. Poi arriva il weekend e alcuni vanno al mare, altri in montagna altri a caccia ma di… umani, cioè di poveri che si vendono come prede per far sopravvivere i figli o i parenti. Alla fine c’era una scena in cui tutti i trofei messi sulle pareti erano composti da teste umane, bambini compresi… L’ambientazione post-atomica è invece una cosa che voleva il produttore e che tolse anche la divisione tra la parte del mondo bella e ordinata e la parte del mondo povera e selvaggia. Ricordo una scena - in cui il protagonista viene preso e portato nella riserva sul convoglio di una metro che fu girata nella metropolitana della linea A di Roma, al tempo ancora chiusa (doveva essere ancora inaugurata, ndr)… Insomma, era sempre stato un mio desiderio fare un film di questo genere, anche se alla fine l’idea venne impoverita, manipolata… Ad esempio c’è tutta una sequenza con le motociclette (poi ampiamente ridotta) perché quello che mi affascinava era riproporre i cavalieri medievali mettendoli a duellare sulle motociclette. Infatti i motociclisti hanno una spada, una katana; ma è tutto ridotto al minimo...
Invece di chiamare il famoso maestro d’armi di Sergio Leone, Benito Stefanelli, con il quale avevo progettato i duelli in motocicletta a colpi di spada, il produttore chiamò un altro e sparirono i duelli. Anche per I cinque del condor (ridistribuito come Squadra selvaggia) di Umberto Lenzi ci fu una grossa manipolazione. La storia era originale e infatti fu venduta bene; poi passò di mano e finì per essere trattata mediocremente, anche perché i coproduttori tedeschi avevano un budget di un miliardo e gli italiani realizzarono il film con 300 milioni, tenendosi il resto e andando a girare a Santo Domingo invece che in Africa. Era la storia di un famoso leader africano che è in esilio in Italia per sfuggire alla dittatura instaurata nel suo paese. Ma la sua nazione ha delle risorse energetiche molto importanti, così il leader viene contattato da una multinazionale che gli offre di tornare al potere in cambio dello sfruttamento delle risorse. Ma il leader rifiuta perché il dittatore ha in ostaggio suo figlio, un bambino di 10 anni. La multinazionale allora manda un commando a liberare il bambino, scatenando l’ira del dittatore che tramite un sicario uccide il leader e offre alla multinazionale le risorse energetiche. La multinazionale abbandona subito i mercenari del commando nella giungla e sarà il bambino con intelligenza e coraggio a salvarli diventando praticamente il loro condottiero attraverso i pericoli di un paese ignoto. Di nuovo si ripeteva uno dei miei temi preferiti: l’innocenza contro la violenza.

ELLERRE: In Vediamoci chiaro torni a lavorare con Salce ma anche con Dorelli, qui in versione non vedente. E’ stata una bella esperienza?
 ROBERTO:
È un film interessante perché era la storia di una specie di... Berlusconi! A Luciano Salce piaceva molto perché cominciava con un tipo milanese, interpretato da Johnny Dorelli, che faceva il padrone smargiasso di una televisione privata e per un banale incidente diventava cieco. La moglie, i familiari, gli amici e i collaboratori, tutti a omaggiarlo e a compatirlo, obbedienti e devoti, fino a quando il protagonista scopre, riacquistando casualmente e improvvisamente la vista per una caduta, che tutti lo ingannano sfruttando la sua menomazione. Chiaramente lui continua a fingersi cieco e prepara una serie di vendette…

ELLERRE: In La gabbia, di Patroni Griffi, lavori alla sceneggiatura insieme a nomi importanti come Fulci e Barilli. E’ stato facile lavorare con chi si diceva non avesse poi un carattere facilissimo come Fulci?
 ROBERTO:
La verità su La gabbia è la seguente: Lucio Fulci parlava male di quasi tutti ma io – non so per quale ragione – gli ero stranamente simpatico. Infatti quando dovevo girare Favola crudele (1991, ndr) e la produzione chiese a Fulci in prestito John Savage che nel frattempo stava lavorando sul suo set (Le porte del silenzio, dello stesso anno, ndr) lui mi concesse l’attore per due settimane. Era un uomo geniale, molto intelligente e preparato. Faceva solo finta di essere trasandato e burbero. Era invece un tipo sensibile e delicato che si mascherava dietro un atteggiamento scontroso… Da sempre sosteneva di essere lui l’inventore della suspense all’italiana, non Dario Argento. Gli americani gli riconoscevano il primato, il resto del mondo no. Una volta fece uno scherzo a Dario durante un Fantafestival: si presentò tutto dimesso, su una sedia a rotelle e mi chiese di sistemarlo al centro della platea, dove era impossibile non notarlo. A quel punto Argento, che era uno degli ospiti premiati, vedendolo accasciato sulla sedia a rotelle, dimesso e ansimante, fu mosso da compassione e rivolgendosi al pubblico disse: “Vi chiedo un applauso per Lucio Fulci, un maestro della suspense all’italiana”. A quel punto Lucio smise di ansimare si drizzò sulla sedia, prese il microfono ma invece di ringraziare: “Aaaah, Dario, l’hai ammesso finalmente! Ma solo perché pensi che sto su ‘sta sedia a rotelle e sto per morire... invece mi sono solo rotto il mignolo e sto benissimo!”. Tornando a La gabbia: Lucio mi chiamò per scrivere la sceneggiatura partendo da un soggetto di Barilli che lui aveva rimaneggiato. La storia raccontava di un’adolescente borghese che viene sedotta e abbandonata durante una vacanza al mare. 
L’adolescente ormai donna rincontra casualmente dopo vent’anni il seduttore che è l’amante di una vicina. Lei non ha mai rimosso il passato, così per vendicarsi attira l’antico seduttore in casa con un pretesto, lo imprigiona e cerca di ucciderlo. La storia così com'era per me aveva un grave difetto: la ragazzina doveva essere stata non solo sedotta ma traumatizzata dal seduttore, altrimenti il suo rancore non poteva essere il motore di una vendetta che arriva fino all’omicidio. Il trauma, quindi, doveva essere molto forte da segnare la ragazzina a vita e da giustificare poi quello che sarebbe successo. Così con Lucio decidemmo di immaginare un antefatto in cui non più una diciassettenne ma una quattordicenne, negli anni 60, giocando sulla spiaggia assieme al fratello più piccolo, capita vicino a un capanno dove un giovanotto sta facendo l’amore con una tardona. Il giovanotto vede la ragazzina ma continua a fare sesso e la ragazzina scappa. Successivamente il tizio ritrova la ragazzina e la turba, la confonde finché riesce ad attirarla nella sua stanza e la seduce, promettendole di fuggire con lei, ma l’indomani sparisce e la ragazzina rimane sola e incinta. Da qui la vergogna, il dolore, il dramma, il rancore covato a lungo e infine l’incontro e il sequestro del seduttore che ripete alcuni temi a me cari: non solo la vittima che cerca di sopraffare il carnefice, ma anche la pietà per il carnefice. Infatti nel film, a sorpresa il carnefice diventa vittima suscitando alla fine pietà perche il dramma e l’odissea del bastardo seduttore diventa ossessiva e drammatica… Insomma un giuoco narrativo interessante che andò in pezzi quando il produttore Ettore Spagnuolo rilevò il film e assegnò la regia a Giuseppe Patroni Griffi. Io, per correttezza nei confronti di Lucio, rifiutai di continuare la sceneggiatura. Il film fu interpretato da Tony Musante e Laura Antonelli, ma Musante nei flashback non era credibile come giovanotto e l’attrice che impersonava Laura giovane non era abbastanza innocente e smarrita nella ragnatela del seduttore e queste mancanze squilibravano tutta la situazione, togliendo valore al trauma. Insomma, in alcuni testi non sono accreditato come sceneggiatore del film, ma rivendico di averlo scritto.

ELLERRE: In Carabinieri si nasce tocca addirittura al filone barzellettistico. Non dev’esser facile trovare tante barzellette da sposare insieme.
 ROBERTO:
Di questo film sono insieme a Bucceri autore solo del primo soggetto, che non conteneva barzellette: doveva essere una storia per Enrico Montesano diretta da Luciano Salce, ma dopo un dissidio tra i due produttori questo soggetto fu assegnato a uno solo dei due che per compiacere la distribuzione volle trasformarlo in una serie di barzellette. Luciano se ne andò e io con lui. Il soggetto fu revisionato da Umberto Marino, che con il regista Laurenti scrisse anche la sceneggiatura.

ELLERRE: Una donna da scoprire viene considerato da molti un film assolutamente divertente, ricco di notazioni che possono avvicinarlo, soprattutto nella realizzazione finale, al comico involontario. Era un “pericolo” che avvertivi, quando scrivevi?
 ROBERTO:
Riccardo Sesani, il regista, è un amico affettuoso e sfortunato, non critico il suo film al quale ho prestato il mio nome.

ELLERRE: Dalla storia di Giuseppe Pederiali “Venivano dalle stelle” con Roberto Lerici e il regista Aurelio Chiesa traete Luci lontane, insolito esempio di fantascienza italiana quasi intimista.
 ROBERTO:
In Luci lontane ebbi il piacere di avere come co-sceneggiatore Roberto Lerici, che era anche un ottimo scrittore. Ci ispirammo liberamente al romanzo “Venivano dalle stelle” di Giuseppe Pederiali. È un film a cui tengo molto. Era di nuovo fantascienza, tratta appunto da un bel romanzo. Ricordo che fui prelevato da Claudio Argento, il produttore, all’aeroporto di Fiumicino appena sbarcato dal volo di Rio de Janeiro dove ero stato a seguire un film e trasportato direttamente sul set, vicino a Cesena o Rimini. Mi sembra che Tomas Milian e Laura Morante non andassero d’accordo con il regista Aurelio Chiesa sull’interpretazione del film: Chiesa voleva tutto molto realistico e poteva essere giusto perché il realismo dà grande spessore alla parte fantastica; ma deve esserci anche la parte fantastica. Invece Chiesa, forse poco esperto o non avendo la passione per un’altra realtà, voleva tagliare tutta la parte delle suggestioni fantastiche che davano sapore al copione. Tanto è vero che litigai con lui per salvare il “mio” finale. Per fortuna ci riuscii perché solo quel finale dava un senso al film, capovolgendo il rapporto tra realtà oggettiva e realtà percepita proprio nella scena dell’incredulo che colpito da un lutto personale si mette in ginocchio davanti a colui che fino a quel momento aveva ritenuto pazzo e lo prega di compiere lo stesso “miracolo” per il quale lo aveva fino allora deriso e perseguitato.

ELLERRE: E arriviamo a Santa Sangre, forse il tuo script più celebre: come fu il rapporto con Jodorowsky e con Claudio Argento? Sei soddisfatto di come il film venne poi realizzato?
 ROBERTO:
Io e Claudio Argento, scegliemmo Jodorowsky insieme. Andammo a Parigi per incontrarlo, ma Jodorowsky voleva parlare solo con me e non con Claudio: con gli artisti e non con i mercanti, come li chiamava lui. Quando lo incontrai mi aspettava, quasi nascosto, nell’androne del palazzo del suo agente: era vestito interamente di viola con scarpe viola, calzini viola, camicia viola, giacca viola, pantaloni viola, forse perché a lui piace il “coup de théâtre”. Lo guardai e mi disse: “Oui c’est moi, Jodorowsky”. Andammo a parlare al bar, non dall’agente perché anche quello era un luogo di “mercanti”. “Quando ti è venuta in mente questa storia? Che giorno?”, mi chiese. “Non me lo ricordo, l’anno scorso…”. “Quando?”. “Credo a marzo”. “Sì ma che giorno?”. “Il 29 marzo, lo ricordo perché ero stato in un posto...”. “A che ora?” “Verso l’una, perché in genere vado a dormire tardi”. “Ecco, quella sera l’angelo delle storie è passato per Parigi, ha visto che dormivo, ha continuato a volare ed è arrivato fino a Roma dove tu eri sveglio e la storia l’ha raccontata a te. Ma quella storia era mia e tu sei un ladro, lo dicono anche i tarocchi”… Non sapeva che la mia famiglia era una famiglia di guaritori dei Monti Sibillini, il cuore magico d’Italia, e che la magia o meglio la favola della magia la conoscevo da bambino... L’anello che porto al dito (lo mostra, ndr) raffigura un leone che con la zampa raggiunge una stella e ha inciso il motto “Non altius“ (non più in alto) ed è la copia di quello di un mio antenato, Petrus Leonibus (Pierleone Leoni, ndr) che è stato lo stregone di Lorenzo il Magnifico nel 1490. Quindi Jodorowsky, un russo-cileno vissuto a Città del Messico e finito a Parigi non può raccontare a me la favola della la magia o della psico-magia! Cioè, se il famoso regista Jodorowsky deve fare scena per lanciare il film, io che sono il suo sceneggiatore lo aiuto: posso anche dire che Alessandro mi è apparso in sogno per chiamarmi a Parigi a scrivere la sua storia, però sappiamo che è una trovata pubblicitaria e che non siamo due maghi ma due “cinematografari”, raccontatori di storie per professione. 
Come professionisti cominciammo a scrivere la sceneggiatura a casa sua per un mese circa. Io avevo, dai tempi di Bava, quella fissazione del “paradosso dell’assassino” che più uccide e più suscita pietà finché addirittura quasi commuove più delle sue stesse vittime, così scrivemmo un film sulla follia quotidiana, sviluppandolo in maniera “circolare”, un po’ come poi avrebbe fatto Pulp Fiction. Nel film si riconoscono, inoltre, alcuni dei miei temi ricorrenti: la crudeltà di Orgo, l’innocenza di Alma, la malattia mentale come fuga o come luogo della verità, l’orrore come forza vitale… Il fim fu realizzato molto bene con l’apporto, per me determinante, di due grandi professionisti e cari amici: Daniele Nannuzzi, il direttore della fotografia e Mauro Bonanni, il montatore. Ma in sede di edizione con Jodorowsky e Claudio Argento ci fu una grossa discussione che riguardava l’inizio del film, quando Phoenix in manicomio è appollaiato sull’albero e sente fuori campo la madre che lo chiama. Improvvisamente sia Alessandro che Claudio non volevano più che la madre chiamasse Phoenix, ma solo che lui si arrampicasse sull’albero e la vedesse. Ma se il pubblico e Phoenix non sentono la voce materna che chiama perché il ragazzo dovrebbe arrampicarsi sull’albero e affacciarsi oltre il muro di cinta? L’unica prova dell’esistenza della madre è che lui senta la sua voce che lo farà uscire dal torpore della malattia mentale, guardare oltre il muro e scappare per seguirla, determinando gli avvenimenti del film. Non mi battevo per un elemento secondario ma per un elemento determinante che, ripeto, reggeva tutta la storia. Se togli quella voce che chiama la vicenda che segue è solo il delirio di Phoenix è il film non ha più alcuna fascinazione. Riuscii, urlando, ad avere ragione e la voce fuori campo rimase: il film fu un successo, ma per quella discussione, forse proprio perché avevo avuto ragione o perché avevo urlato troppo, io, Claudio Argento e Jodorowsky non lavorammo più insieme.

ELLERRE: Dopo Santa Sangre e altri film come Spogliando Valeria, Casablanca Express o American Risciò” tornasti dietro la macchina da presa per dirigere Favola crudele. Cosa ricordi di questa tua prima esperienza “italiana” da regista?
 ROBERTO:
Dopo Santa Sangre si era consolidata la mia fama di “eclettico”, cioè una specie d’intellettualoide anarchico che scrive film senza alcuna coscienza sociale e che era andato a Cannes non con un film “impegnato” che avrebbe educato le masse ma con un film fanta-iperrealistico di quel “pazzo” di Jodorowsky. Così per sopravvivere ho dovuto ricorrere ai cosiddetti film di genere, titoli come quelli citati in precedenza, per cercare di tornare alla regia dopo le varie esperienze di aiuto con Valeri, Salce eccetera e avendo i figli ormai maggiorenni. Con i proventi di quei film ho potuto lottare per tre anni, senza santi in Paradiso, per ottenere finalmente un fondo di garanzia ministeriale e girare Favola crudele con Claudia Gerini e John Savage poi in selezione ufficiale al Festival del Cinema Italiano. Il film sarebbe andato anche a Montepellier, a Osaka e ad Annecy e ad altri festival se la società di produzione non avesse mancato di pagare una certa tangente a un certo partito e contemporaneamente e casualmente un’ispezione fiscale non l’avesse costretta al fallimento. Senza i soldi per le copie e per la spedizione delle valigie di pellicola i festival sono sfumati. Mi sono rimasti gli inviti.

ELLERRE: Con Dalla parte giusta, ben 14 anni dopo (2005), chiudi momentaneamente la tua esperienza da regista di lungometraggi. Ci fu qualcosa che riguardava il film che ti convinse a non provarci ancora preferendogli l’esperienza dei corti?
 ROBERTO:
Questo fu un film difficile perché molto “scomodo”; era infatti un film “politico” ma, peccato gravissimo, non della parte giusta e nemmeno, altro peccato ignobile, dell’altra parte. Insomma, era ed è ancora un film “contro” i furbi della politica che, come tutti ormai sanno, sono un partito unico che governa alternandosi con vari nomi. Sono quelli che hanno fatto o preteso di fare la rivoluzione solo per poi occupare i posti di quelli che avevano scacciato. Ci ho messo quattordici anni per realizzare questo film ottenendo, dopo i premi per la regia al Festival di Roma, al Festival dell’Havana eccetera, che la Rai lo acquistasse solo per “congelarlo” per altri quattro anni. Quando finalmente è stato trasmesso, a mezzanotte di un sabato sera penalizzato in un programma chiamato Sabato Giallo, il film ha realizzato il 23% di share. Un successo che mi è stato dannoso perché ha dimostrato che avevano ragione coloro che rifiutavano di trasmetterlo, ritenendolo pericoloso perché raccontava la verità. Una verità che ancora oggi mi tiene fuori da certe produzioni, da certe fiction, da certe commissioni…

ELLERRE: Che ci puoi dire dei corti? Ce n’è qualcuno a cui più sei affezionato rispetto ad altri?
 ROBERTO:
Quando non puoi scrivere romanzi perché non hai abbastanza fogli, o non hai abbastanza inchiostro, allora scrivi novelle: sono brevi, immediate e bastano pochi fogli e poco inchiostro, così non resti inoperoso e racconti ancora. Inoltre il corto, quando viene bene, ha una sua fulminante bellezza e all’inizio poteva persino non essere necessariamente e ipocritamente “impegnato” come lo è adesso per ottenere i soldi del Mibact. Era uno spazio libero e divertente in cui sperimentare spunti e storie. Per questo ne ho realizzati diversi e continuerò a farlo senza trascurare però il lungometraggio, proprio come ho già fatto scrivendo e "girando" in inglese, grazie al coraggioso e lungimirante produttore indipendente Mario D'Andrea della MDL, un thriller metafisico intitolato De serpentis munere (Il dono del serpente), interpretato da Guglielmo Scilla, Alexandra Dinu, Benjamin Stander e Valentina Raggio. Tra un corto e l’altro ho infatti preparato questo ritorno al fantastico tra esoterismo e Santa Sangre e, visto il suo successo di vendite all’estero, il mio piccolo nome anche se senza tessere né parrocchie vale qualche spicciolo d’anticipo. Sto preparando un altro lungometraggio e questa affascinante guerra tra idee e realizzazioni continua…

INTERVISTA RACCOLTA IL 28 NOVEMBRE 2017 DAI BENEMERITI ELLERRE ED ERRELLE 

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commenti (3)

RISULTATI: DI 3
    B. Legnani

    23 Gennaio 2018 17:31

    Molto bello
    Markus

    29 Gennaio 2018 11:13

    Complimenti, intervista davvero interessante!
    Buiomega71

    22 Aprile 2018 21:16

    Ottimo Errelle, d'altronde Leoni è autore di FAVOLA CRUDELE, mio imprenscindibile cult movie.