Violenza totemica, mattanza ieratica: "Kichiku dai enkai"

18 Giugno 2008

Mentre masnade di chierichetti della critica si lasciavano ingenuamente sedurre entusiasmare abbindolare circuire blandire da mucchi falsamente selvaggi e svenendo sbiancando sbavando eiaculando su/per Funny games, pur notevole, e mentre il borghesume spettatoriale si lasciava epatér dagli pseudo-shock furbi e ruffiani di un Baise-moi o di Irreversible, inestimabili leccornie come questa passavano quasi inosservate.

Forse meglio così; un sano dimenticatoio e un sano ostracismo non permetterà alle solite irritanti ignoranti idiote diatribe sul "ruolo diseducativo della violenza" o ai soliti inni plebisciti crociate pro-censori/e di deteriorarle depotenziarle snaturarle annichilirle o di ridimensionarne l'elevatissimo tasso d'inconsumabilità a suon di colpi di forbice. Non permetterà ai capricci e ai giubilei del criticume d'insozzarlo di significati non suoi. Non la lascerà in balia delle catramose onde di tutto il cazzeggiare filologico propedeutico semantico di chi osa scambiare i significanti dell'opera con la propria meticolosa mediazione, spinto da un patetico -ancorché subdolo vischioso capzioso deleterio, in quanto totalitario omologatorio sincretistico- affanno pluralista e relativista, che lo induce sistematicamente a illudersi che la critica possa sostituirsi ad un'opera o al suo autore (niente di più ingrato infimo inerziale che ripagare la sensorialità offerta da un'opera con il blablabloso festival del giudizio).
Per me che consumo il cinema solo per meglio detestarlo e per meglio sbarazzarmene (o, nella migliore delle ipotesi, per annoiarmi decentemente), Kichiku è stato una salvifica e profonda boccata d'ossigeno.

Parlando(ve)ne vado forse in contromano con quanto appena asserito rischiando il frontale con l'incongruenza, ma è un rischio che corro volentieri, perché non intendo disinnescare l'ordigno, mancando di rispetto a quanti desidereranno saltare in aria assieme ad esso. L'immane festa del Diavolo, ma anche Il grande banchetto delle belve. Titolo che riconduce a un'immediata dimensione atavica e cerimoniale della violenza, al suo dato più strettamente primitivo, alla valenza preistorica, pre-umana, pre-mondiale ed extra-antropologica di che la violenza è cementata. Promessa/premessa antropologica mantenuta anche più di quanto ci si aspetti.

Film fradicio di una violenza pura, di una potenza inirreggimentabile, finalmente scagionata da pretese teoriche metafilmiche estetiche giustificazioniste. Violenza che non è più di proprietà del discorso, violenza che non teme se stessa, quella -detto retoricamente- con la 'v' maiuscola, cubitale; quella che la società dello spettacolo/lo spettacolo della società non riuscirebbe a malridurre compromettere recuperare accogliendola a palazzo reale tra inchini salamelecchi srotolìo di tappeti rossi. Violenza finalmente inclemente, libera dal vincolo dell'alibi culturale. Che Kichiku sia pressoché sconosciuto o comunque di nicchia mi rallegra e consola, me lo rende un film la cui forza bellezza intensità radicalità potenza invasività pandemia non sono in alcun modo aggirabili (ri)mediabili dissimulabili corruttibili mitigabili.

Mitizzabili sì, perché la violenza di Kichiku, benché ispirata a disonori della cronaca (un raro caso di serial killing per induzione avvenuto in una cellula terrorista dell'estrema sinistra extraparlamentare nipponica chiamata Armata Rossa Giapponese) appartiene al Mito. Che il debordiano debordato e mai abbastanza adorato enrico ghezzi sia stato l'unico ad averlo spavaldamente premiato (ex equo con Machbeth horror suite del cadavre exquisi carmelo bene) è un preciso sintomo dell'impossibilità di fruire il film in quanto "prodotto".

La posta in gioco di questa sbalorditiva tesi di laurea (digressione; il cinema più degno d'attenzione è quello delle tesi di laurea; sono sempre le opere più interessanti incisive radicali spavalde di un autore, quelle che sanno maggiormente rischiare, mettersi in gioco senza remora alcuna, quelle che non s'accontentano della tranquillità della riva e osano il piacere della deriva -meglio se con mare forza 10-, quelle che non temono il ridicolo né la disfatta; basti ricordare, fra tutte e per tutte, Eraserhead e Il cameraman & l'assassino) è la neutralizzazione dell'umano. Kazuyoshi Kumakiri ci ha scommesso sopra fino all'ultimo fotogramma. Sbancando.

Claustrofobico e terrifico, anche e soprattutto prima di estroflettere violenza (l'inquietudine della prima tribale e totemica festa in maschera; il sesso mai liberatorio, sempre veicolo di soggiogazione subordinazione controllo potere riconoscimento gerarchico autarchia, arrugginita chiave che spalanca i battenti del mattatoio a venire) o laddove offre spifferi di fuga destinati all'occlusione (la fallimentare, interlocutoria, disperata fuga nei boschi; mai regista è stato tanto capace di rendere così asfittico e conchiuso uno spazio aperto, di conferire ad un bosco una dimensione xerosferica e bidimensionale al tempo stesso, altro che blair shit project!), immerso in una tsunamica ferocia che annienta ogni ipotesi di apocatastasi, amorale e avulso agli zuccherini della catarsi (qualsiasi prospettiva esorcistica è qui neutralizzata; diremmo anzi che il proposito di Kichiku è di endorcizzare l'energetismo del Male... se no che festa del Diavolo sarebbe?!?), a qualsivoglia canalizzazione psico-sociologica della violenza o a furbette tensioni meta-filmiche, furioso estenuante psicopatico come rari, durissima e sgradevole prova del fuoco anche per i sistemi nervosi inossidabili.

La sinossi è di imbibita carta velina: una cellula estremista del movimento studentesco nipponico anni 70 attende l'imminente scarcerazione del proprio messianico leader. Ma questi, alla vigilia della sua liberazione, si toglie la vita, lasciando l'ensamble -che riponeva nell'attesa della sua venuta ogni illusoria speranza anarco-rivoluzionaria- solo, disorganizzato, traballante, in balia della propria inettitudine, dei propri attriti interni e della follia pandemica della malata mantide amante del capo arnitrariamente autopromossasi a vice, che ubriacata dal feticcio del potere e invasata corrosa esuberata dalla psicopatia sgretolerà letteralmente il gruppo, facendo degli adepti carne da mattatoio.
Il seppuku del guru è la drastica cesura dell'opera.

Ad una prima mezz'ora pregna di una quiete ingannatoria che fomenta e fagocita l'estatico cerimoniale della carneficina, carica di silenzi premonitori e segnali inquietanti, e affidata a molteplici micro-tensioni e contrasti, dove la sensazione e l'ermetismo molto sottraggono al significato, ingenerando più inquietudine (anche dettagli insignificanti quali il primo piano di una gallina riescono a rubare un brivido di disagio), e dove il regista si abbandona a felici sperimentazioni scarti contaminazioni e l'anamorfosi padroneggia di pari passo col sospetto che questa pretenda d'essere una metafora del Potere tout-court (fra)inteso (o del finis hominis dovuto ad uno sregolato sbilanciato disastrato sovrappiù di modi di disporre dei poteri), ne succede repentinamente una seconda quasi in tempo reale (questo sì terribile, interminabile, terribilmente capace di farci annaspare ed annegare nell'angosciante negazione dell'umano e del corporeo di cui si fa carico la pellicola; altro che certe moralistiche scappatoie meta-cinematografiche di Haneke o il pur gradevole giochino a carte scopertamente truccate con cui certo cinema pretende di trascinarci per i capelli nella colpevolezza uber alles!), affidata alla verticalità del piano inclinato, dove il forsennato cupio dissolvi del gruppo è un sacerdotale sistema di dovere kantiano o una categoria dello spirito.

Un gruppo senza più guida non ha più direzioni prospettive futuro; il film incarna questo venir meno del futuro, questo futuro fin da subito compromesso da una smania di sovversione male indirizzata e peggio organizzata, un orgasmo della fine eccellentemente vivificato dalla protagonista (una figura che disturberà a lungo il vostro dormiveglia; in assoluto l'eterno femminino più temibile ch'io abbia visto in 30 anni di sindrome di Platone, proprio perché rifugge le stereotipie dello Psicopatico convenzionalmente offerto dal cinema, costruite su scontati e sfiatati psicologismi di causa/effetto); il film è null'altro che questa impossibilità della Storia (di realizzar se stessa), questa storia dell'impossibilità (del raccontare una storia). C'è di che sospirare di sollievo e di che ringraziare l'autore per aver scrupolosamente evitato di far scivolare l'insieme sulla buccia di banana di una ri(s)cattatoria, ancorché volgarmente moralistica valenza ideologica/politica/storica/semiotica, riducendone financo il sospetto o l'equivoco di essa a scarni segnali sballottati su una scivolosissima e incerta superficie; la medesima dove Kumakiri inacidisce e incancrenisce una situazione data per persa in partenza e spedisce a rotta di collo la violenza verso la gabbia della coazione a ripetere, del vuoto pneumatico, dell'aut(omat)ismo e di una esuberata gratuità che scongiura ogni ricorso alla pretestuosità della spinta motivazionale.

Dal colpo di katana che sfonda l'addome del leader il film diventa un'indomabile valanga che non risparmia un solo millimetro quadro di spazio e assume l'atteggiamento di un idrofobo cane sciolto digiuno; Kumakiri dirige il film con moto lineare uniforme, a mo' di suicida che voglia schiantarsi a folle velocità contro un muro, e diventa un ibrido metà Jackson anironico e autistico, metà Eschilo preda di una scorpacciata di simpamina; l'assenza di tregue fa boccheggiare e mette a durissima prova le coronarie; la tonalità furiosamente psicopatica e cataclismatica dell'insieme regala scompensi cardiocircolatori a volontà; lo splatter è finalmente austero, subordinato alla glacialità, depurato da quello sciocco umorismo che generalmente intende alleggerirlo e umanizzarlo e restituito al gu(a)sto del patologico, i corpi sono solo macinato in potenza, carne soggetta alla differenza nell'identico della modalità distruttiva, sangue destinato alla propria aspersione, l'imago del corpo in frammenti si fa ostensorio, la brutalità ancestrale liturgia della carne, l'atto om(n)icida e del torturare è qui sacramento; pare quasi di respirare l'odore della carne cruda, delle interiora riverse, dell'emoglobina che tutto macula, del sudore, della polvere da sparo e non sono poche le volte in cui ci si guarda/tasta gli abiti convinti di averli inzaccherati dalle cervella... crani sfondati, peni staccati a morsi, aborti procurati a fucilate traboccano dai fotogrammi; la Storia ridotta a scoria e viceversa, il sadismo come entropica erranza mistica liturgica sacrale ancestrale, estatica e insopportabilmente diluita reiterazione: il tutto ossessivamente scandito da martellanti percussioni tribali, e all'ombra di una bandiera giapponese recuperata nell'immondezza, muta e arresa spettatrice ormai incapace di rappresentare una nazione irrecuperabilmente dannata allo smarrimento e all'autocannibalismo (Mishima si sarebbe scorticato le mani in applausi).

Erano decenni che un film non rendeva nuovamente rispettabile intrattabile inavvicinabile un genere ormai sfiancato come lo splatter (qui confinato nel suo più congeniale habitat; quello politico), ed erano lustri che un film non riusciva a farmi roteare così nervosamente nel letto e a razziarmi considerevoli porzioni di sonno anche a distanza di giorni dalla visione.
Dopo questo, qualsiasi horrorucolo occidentale spinge al bonario sorriso o all'indomito sbadiglio.
Se avete pensato a Baise-moi o a Irreversible come a film eccessivi e vi siete sfiancati di seghe per la durezza di Funny games, o pensate che Kern& Zedd e i Troma-movies siano quanto di più folle, trasgressivo ed oltraggioso abbiate visto impresso su celluloide, o avete trovato ciofeche quali Blair witch project e Session 9 le prove fruitive più conturbanti e insorreggibili di questi ultimi 10 anni, astenetevi, o preparatevi a fortissimi spasmi coronarici e a una bancarotta emozionale di non poco conto.
Anche i più collaudati habitué della tanatofilia e i più svergognati sfegatati assatanati cultori della violenza troveranno parecchio di che impallidire vacillare capitolare, qui.

APPENDICE 1) Fatevi un enorme favore/regalo e cercate di visionare il film nel più grande formato a voi consentito: andate da un amico che possiede un 32 o 28 pollici o -meglio ancora- noleggiate un videoproiettore... evitate insomma accuratamente di sprecare e ammorbidire l'impatto guardandovelo in formato ridotto.

APPENDICE 2) Il film, paese che vai censura banzai, circola in differenti metraggi: la versione uncut  è di 108'. I maniaci/puristi della "fully uncut version" sono avvertiti. Segnalo il doppio dvd della ArtsMagic, ricco di un'ora di interessantimi extra.


ARTICOLO INSERITO DAL BENEMERITO SCHRAMM

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commenti (1)

RISULTATI: DI 1
    Mickes2

    30 Agosto 2012 19:20

    volevo complimentarmi per il sentitissimo approfondimento. il film mi ha lasciato qualche dubbio di troppo che spero di colmare con la seconda visione (non so quando avverrà). ad ogni modo leggendoti ho più chiari un paio di passaggi :)