Piazza Vittorio - Documentario (2017)

Ferrara rilancia la sua idea di festosa apocalisse corale, muovendosi apolide tra gli apolidi, disperato tra i disperati, marginale tra chi vive fuori margine (come faranno deliberatamente Dafoe e Garrone), rimappando costellativamente il suo cinema (la finis mundi di 4.44, il non integrato come ultracorpo, l’epica del fallimento/il fallimento dell’epica) in un paese-zattera che vive della stessa mescola di corruzione e cristologia delle sue prove migliori (la città eterna sgualdrina e santa, caput sinonimo di kaputt), cruna topografico-antropologica di un trittico che non lesina in stimoli.

L'estate del 2017 a Piazza Vittorio, quartiere eletto a residenza dallo stesso Ferrara. Un documentario fatto di sguardi fugaci - se non proprio rubati - e scevro da ogni considerazione estetica: immagine scarna che punta tutto al messaggio universale di tolleranza e rispetto tra popoli migranti. Se ne apprezzano la chiarezza d'intenti e l'autenticità del sentimento, ma rimane poco più che un omaggio: frettoloso e a tratti superficiale.

L'idea che un regista americano, peraltro intelligente, riesca in un colpo solo a raccontare la vita quotidiana di un quartiere che nasce nell'Ottocento come il rifugio dei funzionari sabaudi alla corte del re e un secolo dopo diventa il quartiere multietnico per eccellenza, è una pia illusione. Non sapendo bene quali pesci pigliare, ci mette un po' di buonismo, un appello all'integrazione e le facce di un paio di "noti" che si prestano all'impresa. Abel in passato ha fatto molto meglio.