Miniciclo:
Quegli amori balordi
Capitolo quinto:
l'arte come sfogo dell'istinto
Immerso in una cupezza di fondo che lo apparenta a certo cinema herzoghiano (Vienna invasa dalla febbre spagnola, con le piazze deserte e spettrali e i cadaveri ammassati), abbagliato da chiaroscuri borowczykiani (le vagine esposte e aperte nei nudi delle modelle in pose oscene), hamiltoniani (le ninfette svestite e ammiccanti) e jaeckiniani (le pose arty dei soggetti femminili che indossano calze velate con le giarrettiere), e , perchè no, qualcosa del Verhoeven di
Kitty Tippel (la malattia che arriva implacabile, le stalle ridotte a sanatori) e barlumi fassbinderiani, tutto avvolto nella straordinaria fotografia fiamminga di Rudolf Blahacek
Il problema e che Vesely si fà prendere la mano dall'ambizione, trasformando questo suo "biopic" fosco in un drammone sentimentale con gli acri sapori di uno sceneggiato tv, non rifuggendo dalla noia e dal sentore di un'occasione sprecata (insopportabili le voci fuori campo di Egon, poetiche elucubrazioni sulla stagione che cambia, l'essenza dell'arte, che tirano allo sbadiglio)
Jane Birkin varrebbe da sola la visione , che si palesa spesso senza veli, mostrando il suo asciutto corpo adrogino (quando scende la scalinata, quando si prostituisce per vendere i disegni di Egon a ricconi viziosi, quando la giovane Tatjana le ammira il corpo scoprendo le lenzuola nel letto), con un'intensità veemente tipica dell'attrice francese
Tolto il fascino morboso della Birkin resta Karina Fallesten, la giovanissima Tatjana dalle nudità indecenti, con le labbra vaginali accarezzate dallo sguardo di Egon, con i suoi stivali, corsetti e bustini, minorenne provocatrice che chiede riparo in una notte di tregenda, che impazzisce brandendo un coltello e ferendosi (immagine sanguigna che mi ha ricordato certi nostri thriller "loliteschi", in primis
Solange), accusando Egon di corruzione di minorenne che le costerà la galera.
Tra i notevoli nudi integrali femminili, sinuosi, peli pubici paradisiaci, una sull'altra , tra grazie, seni e natiche (alla finestra, nell'atelier pittorico di Klimt) in contesti quasi arty, si squarcia il velo della crudeltà (la guerra contro la Serbia, la visita militare, la Birkin che si ammala di sifilide tra mosche, merda e pustole, l'implacabile febbre spagnola) che inghiotte gli amori tormentati e balordi , l'arte giudicata mera pornografia (la figura del giudice irreprensibile e bigotto, impersonato dal figlio del regista Max Ophuls, che condanna l'opera immorale di Egon, per poi trastullarsi nel privato con i disegni "osceni" sequestrati, non dissimile dal Michael Caine di
Quills) e lo stesso Egon ossessionato dalle ragazzine e (feticisticamente) dalle calze nere velate.
Mathieu Carrière è imbambolato nè più nè meno come in
Malpertuis, e Vesely si rifà anche al cinema di Kumel, soprattutto negli interni liberty dei caffè e nella dimora di Klimt
Manca però la vera passione, l'autentica carnalità che ne avrebbe fatto un'opera interessante. Vesely cade in facili schematismi che diventano maniera, non riuscendo a creare un empatia sanguigna, autentica, ma solo uno sterile esercizio di stile, che si barcamena tra realtà storica, amori sofferti da telenovela, scampoli di cinema erotizzante, e confuso da un montaggio un pò scombiccherato
Mediocre anche la partitura originale di Brian Eno
IMDB segnala, nel cast, la presenza di Serge Gainsbourg, ma nel film non l'ho visto manco con il lanternino.
Chissà cosa ne avrebbe tirato fuori un Ken Russell che di biopic dannati di inferno e passione se ne intendeva
Sequenza cult amorbalordiana: Egon crede che la sua bella mogliettina Edith lo tradisca con un tenentino mentre lui è sotto le armi. In febbrile spasmo artistico disegna su un quadernetto espliciti atti di penetrazione, mentre immagina la moglie in amplesso con il tenentino.
Ma la vera balordaggine la farà Egon, lasciando una creatura magnetica e meravigliosa come la Birkin per accasarsi con una borghesuccia sciapetta di nessun spessore.