La preparazione all'immane catastrofe è pregna di tensione (l'arrivo al resort, le lanterne fatte volare nel cielo stellato, un pò come facevano i novelli nuovi arrivati nel paradiso terrestre di
The beach) e quando lo tsunami arriva (improvvisamente, con ben pochi, piccoli, segnali disturbanti che durano pochi secondi: il frullatore che si spegne, la palla rosa "baviana" che corre da sola e sfugge ai piedi dei ragazzini, il vento che si alza di colpo, la pagina del libro, che la Watts stà leggendo, che vola via per andare a stamparsi su di una vetrata-la stessa pagina che, come un funesto presagio, già si staccava sull'aereo a inizio film) spazza via tutto in pochi attimi, non lasciando un attimo di respiro, come se quell'onda anomala e mostruosa stesse per uscire dallo schermo (non riuscendo a contenerla) per invadere anche noi spettatori.
Quello che ne segue è puro cinema dello strazio e del dolore (come in un war movie o in un post atomico), con l'acqua che corre e tutto inghiotte, corpi straziati ovunque per le strade ricoperte dal fango e dai detriti (alcuni già in preda ai granchi), cadaveri ammassati sui pick up, gambe oscenamente spezzate, morte, distruzione e apocalisse ad ogni inquadratura.
Ma quel che più colpisce è il martirio fisico a cui Bayona sottopone Naomi Watts (che nemmeno il Jim Caviezel della
Passione gibsoniana), una vera e propria via crucis del martoriamento della carne.
Sbattuta di quà e di là dalla furia devastante dell'acqua, con una gamba squarciata e la carne che le penzola dalla coscia, infilzata al seno, dolorante che si arrampica su di un albero con l'aiuto del figlio, trascinata, urlante, tra la melma e i detriti, ferite profonde e echimosi su tutto il corpo, il versamento di sangue dall'occhio, la vomitata di sangue (dopo che la sua vicina di letto spagnola rigetta emogoblina rossastra) con fuoriuscita di una specie di schifossima sostanza filiforme dopo aver mandato giù uno spicchio di arancia ), attaccata ad un respiratore, preda alla febbre e al deliro, all'enorme emoraggia e al rischio della cancrena (
Di che colore è la mia gamba? Chiede ripetutamente al figlio), per poi, nel momento dell'anestesia, in una sala operatoria che sembra più un mattatoio, ripercorrere ancora il momento della tragedia, come se fosse imprigionata in un liquido amniotico, sott'acqua, sbattuta con violenza, contro i rami che le tranciano le carni, i cadaveri che le fluttuano attorno, fino a galleggiare come la bambola del
Triangolo delle Bermude, per poi rinascere.
E fin quì il film di Bayona è puro spettacolo della morte al lavoro, della diperazione e della sopravvivenza, che mozza il fiato, riuscendo dove quasi tutti i disaster movie passati avevano fallito, restituire il realismo e far percepire l'orrore e i devastanti postumi di una furiosa tragedia della natura (familiari che cercano altri familiari, ospedali al tracollo, corpi devastati, un sentore di apocalisse che riempie i polmoni e gli occhi, l'umanità, l'egoismo, il pianto disperato di McGregor).
Poi Bayona svolta, arriva la parte buonista, dove c'è solo spazio per i buoni sentimenti, gli abbracci, i ritrovamenti correndosi incontro, la salvezza , la famigliola del Mulino Bianco finalmente riunita, e il film cola a picco, inesorabilmente, con un inutile cameo di Geraldine Chaplin (Bayona se la porta dietro dopo
The Orphanage, dove torna l'infanzia e la pubertà, questa volta da pseudo favola nera che guarda a Peter Pan, si muta nella sopravvivenza di un cataclisma senza precedenti, che fa crescere i ragazzini piuttosto in fretta, con Tom Holland che si aggira, tra stanze d'ospedale, feriti e persone che chiedono il suo aiuto per ritrovare i propri cari scomparsi, come Christian Bale ne
L'impero del sole) che guarda le stelle assieme ad uno dei figli della Watts e la sciacallata dell'agente assicurativo, tanto gratuita quanto deleterea, che affossano tutto in un marasma di ipocrisia e sentimentalismi a buon mercato. Talmente inzuccherato che, come scriveva Manlio Gomarasca nella sua recensione al film su di un numero di Nocturno, speri davvero che l'aereo che porta la famiglia Brambilla a Singapore (per ricevere cure migliori e stipule assicurative) precipiti in mare.
Un vero peccato, perchè tutta la prima parte e gran cinema di emozioni angosciose, fatto di fango, carne e sangue e Bayona sembrava che riuscisse a evitare facili cadute nel patetico, per poi scadere rovinosamente nel convenzionale.
Grande cast tecnico e la Watts che se la passa peggio che nemmeno in un torture porn, dove le auto galleggiano, i pesci escono dal mare, i cadaveri te li vedi ad ogni angolo di strada e la tua gamba stà bellamente marcendo e il tuo corpo è ridotto ad un rottame incancrenito, tra i pianti, le urla e i lamenti in un ospedale che pare l'anticamera dell'inferno.
Ma poi bisogna seguire le regole standarizzate di qualsiasi blockbuster americano, perdendo così un'occasione preziosa di realizzare uno dei disaster movie più dolorosi e shock, che già comincia a far storcere il naso nel momento in cui McGregor (sul letto della stanza, o di quel che ne rimane), vede i due figlioletti arzilli che le fanno ciao con la manina dal buco del tetto sfondato.
La distruzione e gli spasmi emotivi della prima parte cominciano a scemare e il temuto "tutto è bene quel che finisce bene" non tarda, ahimè, a manifestarsi, mandando , quasi, tutto in malora.
Ah, già, è tratto da una storia vera...
Piccola curiosità, il libro che Naomi Watts legge sia in aereo a inizio film (con la funesta pagina che si stacca), sia a bordo piscina poco prima dell'arrivo del disastroso e possente tsunami (sempre con la dannata pagina che svolazza via, sorta di presagio menagramo) è
L'ombra del vento (anche quì un oscuro e inquietante segnale premonitore) di Carlos Ruiz Zafòn (fonte
Ciak del febbraio 2013, nello speciale dedicato film a pagina 131).
Siamo in spiaggia