Ambientato nel secondo dopoguerra, il film narra lo stile di vita arcaico e lontano dalle istituzioni dei pastori dell'entroterra sardo. Una vita fatta di povertà ed indicibili sacrifici per poter sbarcare il lunario. Una narrazione asciutta e priva di fronzoli in cui si raccontano le peripezie di un pastore accusato ingiustamente di aver ucciso un carabiniere che si darà alla macchia negli impervi costoni del nuorese. Valida opera prima.
Sguardi perennemente seri e diffidenti, attenti a tutto ciò che può danneggiare uno status, povero ma onesto e sufficiente a vivere, conquistato a fatica. Duro lavoro anche per uscire da un fatalismo innato e contro il quale, si pensa, non ci sia nulla da fare. La legge vista come una cosa da evitare perché non aiuta, anzi. Ci sono leggi non scritte che bisogna rispettare, per rimanere uomini e farsi, a propria volta, rispettare. Immagini di natura e di uomini che si fondono assieme; tutto è visto seriamente tutto è fatto seriamente. Capolavoro.
Caccia all'uomo sugli aspri pendii della Barbagia. Con una fotografia pastosa e contrasta che esaspera l'acre imponenza della cornice ambientale, De Seta si affranca dal documentarismo immergendo la Natura in un'aura primeva e arcaica che fa dell'isolazionismo un habitat e una condizione esistenziale. L'innocenza è vittima dell'ignoranza e il banditismo legittimato dalla diffidenza verso i mandatari delle forze governative. La parabola umana trova forza nella concisione inesorabile e fatalista del narrato. Straordinari i due giovani interpreti (veri pastori sardi). Amaro.
Una sorta di neorealismo antropologico per il debutto di De Seta, che dai suoi due corti dedicati a Orgosolo e Barbagia riprende con encomiabile parsimonia alcuni dettagli di vita quotidiana. La storia del pastore incolpevole ma latitante, in una limpida asciuttezza icastica, assume un’esemplarità socio-politica viscontiana: ma è curioso che il grande documentarista, attento all’aspetto visivo (notevole in un folgorante b/n), ceda su quello sonoro, facendo parlare i sardi in impeccabile dizione italiana e scegliendo una musica da film apolide.
La prima pellicola di finzione di De Seta è altrettanto "vera" come i suoi documentari passati. Il regista (qui anche montatore, sceneggiatore e direttore della fotografia), sa tessere magistralmente la sua tela attorno a personaggi
il cui destino pare già segnato fin dai primi fotogrammi. Questa predestinazione lo rende, in qualche modo, pasoliniano (ed anche la forma a tratti lo è). Il finale è solo una logica conseguenza di quanto accaduto prima. Grande esempio di cinema.
Un po' documentario e un po' dramma. Dà l'idea di come questo "mondo" modelli le persone che vi abitano e come i costumi e le strutture della cittadina influiscano su di loro. L'uso del bianco e nero nelle scene più scure, le figure incastonate tra le luci della cattedrale e l'imponente presenza di Michele ripreso guardando verso l'alto mentre è incorniciato dalle colline rocciose e dal cielo grigio, danno un senso del dramma intrinseco che sta nella sopravvivenza quotidiana. Sfortunatamente la trama è semplice e prevedibile e il ritmo soporifero.
Gli attori non professionisti danno sempre bei punti alle star, qui ne abbiamo la riprova. Nessuna maschera saprebbe replicare il viso arroccato di Michele Cossu, la compunzione, l'arcaica rabbia segreta. Per De Seta fa scuola La terra trema; la scena però è sarda. Oggi può suonare stonato il doppiaggio italiano preferito alla lingua barbaricina, ma i dialoghi sono così essenziali da non stravolgere troppo il contesto. Riprese magnificamente scorciate, in salita, come la vita dei pastori.
MEMORABILE: La funerea distesa delle pecore del gregge, morte di stenti e stanchezza.
Pietra miliare del tardo neorealismo. La sua anima sta tutta nel potentissimo commento iniziale (echi di Carlo Levi): ci sono luoghi e persone totalmente estranee al concetto di stato, che non possono comprendere e che viceversa non può comprenderli, ma solo cercare di ingabbiottare tragicamente le loro vite. Magnifiche atmosfere e una trama da brivido, giocata sia sui conflitti sociali, sia sulla sventura che può precipitare sui pastori da un momento all'altro, condannandoli. Il doppiaggio mostra come non ci sia sempre bisogno del dialetto per fare grande neorealismo.
Un film che intimorisce, specialmente quando sui titoli di testa si staglia un minaccioso "interpretato da pastori sardi". Però, non appena ci si rende conto che tali pastori sono doppiati in un italiano impeccabile (bei tempi...) e che alla regia c'è un professionista in grado di valorizzare alla grande i paesaggi montani sardi, lo spettatore può rilassarsi e godersi le belle immagini e, a sorpresa, pure una serie di volti piuttosto fotogenici. Certo, il soggetto è davvero poca cosa, per quanto il finale giunga non totalmente scontato.
Opera prima tesa ad ampliare le interessanti ricerche effettuate per i lavori precedenti - e dai quali confluiscono interessanti inquadrature. Lo sguardo di De Seta è sobrio, poco incline alle sfumature drammatiche e sempre alla ricerca di spazi nuovi nei quali definire i propri personaggi. Un documento anti naturalista prezioso, che sa raccontare l'immutabile ciclicità della miseria umana senza esaltare gli eroi e maltrattarne la poesia.
Difficile essere più realisti di così. Uno spaccato di vita da pastore prima e pastore braccato dopo che fa entrare lo spettatore in quel mondo duro, dove le parole vengono centellinate facendo spazio al massacrante lavoro. Al limite del documentario, torna pellicola cinematografica quando, prima i banditi e poi le forze dell'ordine, irrompono per stravolgere la vita del protagonista. Un plauso va proprio a lui per l'interpretazione asciutta e assai credibile e al ragazzino, altrettanto bravo. Da vedere.
MEMORABILE: "È successo un guaio"; Perse le pecore, persa l'anima.
Fa impressione vedere oggi un cinema, come quello di De Seta, ostinatamente "anti attuale" già probabilmente nel '61, in un film, a metà tra propaggine documentaria e pellicola di inchiesta, nel quale l'intreccio è destinato a restare sullo sfondo, facendo risaltare in piena penombra sguardi, silenzi, paesaggio, radici, contesto. Resta certo la pecca, clamorosamente dissonante col passare degli anni, di aver dovuto rinunciare in tutto ciò al linguaggio, "segno" così ulteriormente in grado di farci comprendere come pastori e briganti siano facce di una medesima medaglia. Sofferente.
MEMORABILE: Le forze dell'ordine che maltrattano Giuseppe; La morte delle pecore.
Come ha detto Scorsese, un film fatto da un etnologo che parla con la voce di un poeta. Straordinaria ricostruzione della vita quotidiana di un povero pastore accusato di aver ucciso un carabiniere, anche se questo non corrisponde a verità. Duro e commovente, un film in cui le persone si mescolano con il paesaggio che le circonda e sono immensamente lontane dal benessere che si stava affermando in Italia.
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