Da un romanzo postumo di Guido Morselli, la storia del ritrovo di un padre vedovo e della figlia adolescente, che assume presto connotati torbidi e morbosi precipitando verso la tragedia. Vancini sa proporre un’atmosfera immobile e malata, anche in forza della location luganese, ma non riesce ad infondere adeguato spessore psicologico ai suoi personaggi, benché affidati ad un corretto Nero e alla lolitesca Wendel. Insomma, un “dramma borghese” come tanti altri …
Più che dramma borghese... dramma medicale! La malattia (psicosomatica) del padre vedovo (bancario con ambizioni letterarie) e della figlia orfana (collegiale smarrita, più che vogliosa) è la cifra tangibile di un malessere emotivo più che di un disfacimento morale: c'è ben poco di pruriginoso nel loro rapporto, è una specie di febbre fredda. Gli esterni lacustri e uggiosi, gli interni lussuosi ma anonimi dell'hotel svizzero, i primi piani sui volti contratti o affranti: tutto coerente, ma tutto meccanico, perciò neppure il finale -tragico- ci scuote. Malinconico e corretto.
MEMORABILE: La sensualità vitale, aggressiva ma salubre della Di Lazzaro, una macchia di colore nel grigio.
Una storia audace di quelle che pochi coraggiosi autori saprebbero trattare: un rapporto malato tra una figlia e un padre, trasferitisi in una misteriosa e vecchia villa di Lugano. L'ambientazione già di per sè affascina, il cast è ispirato e la Di Lazzaro da sola buca lo schermo con le sue doti di bellezza e classe innata. Non è il padre il vero ammalato, ma la figlia dalla sessualità patologica che cerca di sedurlo in ogni modo. Claustrofobico e morboso.
Buon film di Vancini che riprende un romanzo di Guido Morselli. La Wendel si dimostra attrice discreta, Franco Nero è una garanzia, la Di Lazzaro è sempre bella da vedere. Il film non è il solito pasticcio fatto di scene erotiche forti, ma un buon dramma psicologico.
Le manifestazioni morbose della figlia che il padre non riesce ad arginare disgregano e lentamente devastano ogni appiglio affettivo di quest'uomo rappresentante della medio-piccola borghesia, coi suoi agi ma anche coi suoi obblighi lavorativi. Dramma dunque della solitudine dell'uomo e della famiglia, fragile e corruttibile, depressa e instabile. Malato e inerte di fronte a una così imprevedibile situazione, rimane confinato su questo lago svizzero, in una vacanza usurante e interminabile. Forse un po' pretenzioso, colpisce solo in parte.
Trasponendo il romanzo di Morselli, Vancini rifugge da facili e morbosi sensazionalismi per concentrarsi sugli aspetti psicologici (sia pure non del tutto approfonditi) di un rapporto padre-figlia che l’ambientazione ristretta rende opprimente e in cui la malattia fisica è riflesso di un male più profondo. L’approccio austero ed ellittico esalta, per contrasto, il sensuale dualismo Wendel/Di Lazzaro. Buoni anche Nero e Bagno. Unico limite del film è che il finale è facilmente intuibile.
MEMORABILE: Mimmina al padre: "Ti amo". Guido a Mimmina: "A un padre si dice: «ti voglio bene»". Thérèse a Guido: "Mi piace la tua dolce ipocrisia".
Era una bell'impresa ridurre i labirinti di Morselli in pellicola e Vancini in parte vi riesce con sufficiente equilibrio. Godibile lo scandaglio delle sequenze iniziali in cui s'accumula l'attrazione padre-figlia, mutua e non accordabile al solo complesso di Elettra. Qualcosa si rompe nel dettato con la bella Dalila Di Lazzaro: un ruolo di scompiglio che però spegne anziché fomentare l'elettricità nell'aria. Bene Nero, scrupoloso nelle turbe e negli imbarazzi, ma la star è Lara Wendel, travolgente adolescente in fiore (e camicia da notte).
MEMORABILE: La masturbazione di Mimmina, semicosciente, nella luce dell'alba sul letto accanto al padre.
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Direttamente dall'archivio privato di Buiomega71, il flanetto di Tv Sorrisi e Canzoni della Prima Visione Tv (giovedì 29 ottobre 1987) di Un dramma borghese: