Brainiac • 1/01/19 20:21
Call center Davinotti - 1465 interventi Dicesi che se devi penetrare l’opera di un artista fai bene a sorprenderla nel punto in cui è libera di srotolarsi senza ormai più imbarazzi. Quando tutto è perduto o ancora non è nato. Come direbbe Gramsci, alla vera essenza della sua Crisi. Approcciarlo, l'opus, se viene prodotto quando tutti puntano su di lui (quell’artista) o nessuno lo fa già più. Quando ha firmato un contratto plurimilionario con la major oppure è al verde più malinconico. L’ autore quando è fuori dalla sua confort-zone: tipo un pianista classico che ha appena aquistato il suo primo minimoog. Oppure nella fase "Album solista del leader di un gruppo storico", nella fase "Quadro minore di pittore maledetto venduto dall’artista per pagare il meccanico" o infine alla voce "Uno dei tre film diretti da un attore di successo in netto calo di autostima".
E allora per conoscere Van Damme è forse opportuno partire dalla sua
Quest *: la ricerca, la prova, la missione. Ricerca della libertà (nel plot Van Damme è prigioniero di loschi contrabbandieri di lottatori) e Missione come
missione per impossessarsi del drago d’oro, ninnolo scintillante per sudatissimi vincitori del torneo underground di calci volanti. Prova come quasi ci provo, a fare il regista. Fossimo in una libreria The quest sarebbe riposto senza indugi alla A di Avventura, fossimo in un sito di Cinema pure, ma fossimo in un blog avrebbe pure le tag action e fantasy incollate sotto. Viene dopo il successo di
Timecop, la toppa micidiale
Steet Fighter e prima di un periodo della sua carriera (i film con l’ipercinetico Tsui Hark) di cui si parla pochissimo e che magari è frangente tutto da recuperare. In un periodo di discreta Crisi gramsciana, insomma.
Con in mano la prima macchina da presa della sua carriera l’atletico Van Damme cerca sostanzialmente di fare una cosa e una only: dare ritmo alla storia. Questa ricerca (di nuovo) è quasi una missione (aridaje!), tanta è la foga nel velocizzare ogni snodo narrativo e sfrondare ogni descrizione superflua da ogni cosa filmabile. Una fregola così forsennata che anche l’attracco di una nave sull’Isola Muai Thai è fast-forward 4x, con un esilerante effetto Benny Hill e le ondine che palesemente vanno più veloce del normale. I personaggi sono caratterizzati con “aiutami tu a dire” afasia, giusto il tempo di farci capire che JC è un cuor d’oro che accudisce trovatelli e via che ti penzola da un bilico per sfuggire alla polizia, alla mala e all’industria del… fucile a baionetta. Nota mentale: è uno dei film con più cadute “sul morbido” della storia del cinematografo. Su sacchi di biancheria, grano o paglia il buon Van Damme è impossibilitato a lussarsi anche solo una clavicola. Beato lui, come cado da un marciapiede io mi faccio un menisco.
Ammantato da una colonna sonora a tratti pedante a tratti
Lawrence d’Arabia e a tratti
La casa stregata, con tastieroni tronfi che imitano le big-band che sgobbavano per il cinema mainstream dei 50’s, il film del ’96 funziona simpaticamente quando è
Temple of the doom (il viaggio picaresco) e molto meno quando è Tempio dell’
Operazione Drago. Il contest d’arti marziali che vede ogni nazione presentare un suo peculiarissimo esponente è effettivamente simpatico, ma trovate come il cinesetto che imita gli animali o lo spagnolo che accenna passi da torero prima di rutilare pedate sono invecchiate male. Ciccato discretamente anche il villain. L’imponente mongolo non esibisce mosse riconoscibili nel curricola tali da fissarsi nella
top-ten dei Bruti del Cinema d’arti marziali e la sua discesa in campo riporta il clima generale alle farse allegrotte della coppia Hill-Spencer, citate probabilmente nella scena in cui JCVD viene pestato dentro un capanno con il solo sonoro dei cazzotti a far visualizzare allo spettatore la royal-rumble in corso.
Il tutto è voluto, l’approccio soft pure, quindi al fin della fiera
respect per la scelta dell’Autore e
high-five per il suo target di 10-14enni. Jean Claude si filma senza svarioni da prime-mover sbarbato, nessun scavalcamento di campo irritante o particolari svarioni di montaggio, ma anche con indubbia difficoltà a valorizzare le migliori location a sua disposizione. Il finale open-air è mille volte meno fascinoso del set interno, e i campi lunghi non riescono nemmeno a far godere della grandiosità di un dirigibile che si staglia sul palazzo reale. Abuso di rallenty e qualche strambo momento in cui è difficile interpretare lo sguardo degli attori non fanno cestinare l’intero ambaradam. La certosina rimozione di passaggi ridondanti finisce per togliere enfasi ai combattimenti, questo si nota. Quando l’amico del Siam ci lascia le penne, infatti, ce ne frega poco. Il personaggio si è intravisto un paio di volte -a quel punto- e la sua dipartita è indolore, né tantomeno può rappresentare benzina per la giusta rabbia che uno script dovrebbe fomentare contro il bad-guy di turno.
La pellicola scorre liscia fra lussureggianti location, plastici calci volanti (che non sblilanciano troppo l'economia generale) e soprattutto non si “rimpone” mai, come invece è probabile possa capitarci con il cotechino mangiato giusto poche ore fa. Gradevole ma svampito Roger Moore. Imbarazzante Aki Aleong, non si sai mai quale sia l’oggetto o persona verso cui stia sfoggiando il suo incerto sorriso (regia: 1, vandamme: 0, in quei bislacchi frangenti). Deliziosa Janet Gunn, attrice la cui carriera non ha mai preso davvero il volo (fra i suoi credits la partecipazione a
Carnosaur 3 più pacchi e contropacchi di tv).
Scombiccherato e ultra-light, energico pur se non privo di grazia e delicatezza
The Quest si rende adatto ad un pomeriggio ozioso in compagnia di figli o nipotini. Gran figata veder sudare la gente mentre ci si barcamena fra gli snack.
*soprattutto per chi come me è un neofita incuriosito dal cinema d’arti marziali.
Voto: **1/2
Ultima modifica: 1/01/19 20:33 da
Brainiac
Jcvd
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