Discussioni su Be my cat: A film for Anne - Film (2015)

  • TITOLO INSERITO IL GIORNO 24/07/20 DAL BENEMERITO ANTHONYVM
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  • Mediocre, ma con un suo perché:
    Anthonyvm
  • Scarso, ma qualcosina da salvare c’è:
    Schramm

DISCUSSIONE GENERALE

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  • Anthonyvm • 24/07/20 18:12
    Scrivano - 804 interventi
    Riassumere il plot del film è piuttosto complicato, non tanto per la storia in sé (linearissima) ma per il disegno metacinematografico che c'è dietro.

    Siamo in territorio found-footage, e la solita didascalia all'inizio ci informa che gli 87 minuti che stiamo per visionare sono stati selezionati da un totale di 25 ore pervenuto alle autorità. Il filmmaker romeno Adrian Tofei, nella parte di se stesso, si presenta in quello che appare una sorta di video-diario. Fa una panoramica della sua dimora (con cameo della madre) e discorre brevemente della sua professione, dei suoi interessi e del suo ambizioso progetto: ha in cantiere un film d'impatto, un dramma psicologico intitolato “Be My Cat”, su un filmmaker (che dovrà essere interpretato proprio da Adrian) ossessionato da un'attrice famosa, ed è convinto che Anne Hathaway sarebbe perfetta per questo ruolo. La sua performance come Catwoman in Il cavaliere oscuro – Il ritorno è stata per Adrian una folgorazione, ma non potendosi permettere un viaggio negli Stati Uniti, l'unica soluzione è quella di richiamare la star in Romania. Adrian ama Anne Hathaway, ne è ossessionato, e per convincerla a partecipare sta girando, per l'appunto, il video-diario che stiamo guardando. In soldoni si tratta di un prototipo della pellicola in progettazione e il suo intento è quello di farlo pervenire alla Hathaway, giusto per darle un'idea dello script e del suo modo di lavorare. È certo che ne uscirà un capolavoro, un film che catapulterà il nome della Hathaway nell'olimpo delle celebrità... Come se ne avesse bisogno, aggiungerebbe chiunque, ma andiamo avanti. Adrian si serve quindi di tre attrici, inconsapevoli di recitare in una demo, coinvolgendole in quelli che sembrano estenuanti esercizi di recitazione, nel corso dei quali la linea che separa l'Adrian personaggio e l'Adrian regista/attore va assottigliandosi sempre di più, fino a ovvie e tragiche conseguenze.

    Premesse quantomeno curiose in quello che si presenta come un bizzarro gioco di scatole cinesi, uno stalking thriller sui generis, a metà strada fra il cinema vérité e la fiction orrorifica, una sorta di Creep in veste sperimentale. Non ci sono dialoghi preparati, l'azione è in gran parte improvvisata: Adrian è davvero il regista, davvero l'attore, davvero il personaggio. Almeno nella prima tranche, il senso di patetica e perturbante ingenuità che traspare dai suoi astrusi monologhi (rigorosamente in inglese, dato che Anne deve capire tutto, per filo e per segno) riesce talvolta a confondere le idee nello spettatore: Tofei sta recitando oppure si è immedesimato così bene nel suo ruolo che stiamo assistendo a un video-diario “fittiziamente” autentico?

    Eccellente la scena in cui Adrian mette alla prova la prima aspirante attrice, chiedendole di passeggiare normalmente e di tenere un metro di distanza da lui. Unico paletto: non può accelerare il passo. Adrian, al contrario, può camminare al ritmo che preferisce. La frustrazione della ragazza, incapace di mantenere le distanze senza mettersi a correre, i continui rimproveri e l'insistenza del videomaker, che la sprona a trovare una via alternativa per tenersi lontana da lui, raggiungono livelli (in)credibili di realismo. Sembra, fra l'altro, che durante questa sequenza l'attrice abbia chiamato sul serio la polizia perché si sentiva minacciata dal modo di fare aggressivo e asfissiante dell'autore. In effetti i poliziotti arrivano di lì a poco, e il cineasta romeno si vede costretto a spiegare con imbarazzo la situazione. Difficile stabilire dove finisca la ricostruzione e dove inizi il documentarismo.

    A ogni modo, da qui in avanti il film entra “nel vivo”, e Adrian fa ciò che qualsiasi stalker omicida farebbe: droga l'attrice, la spoglia e la veste, quindi la strangola davanti all'obbiettivo. Sembra inquietante a pensarci, specie dopo l'esibizione di verismo che il regista si è dimostrato capace di esibire.

    In realtà è proprio qui che Be my cat cessa di essere convincente. La visceralità snervante del setup viene abbandonata in nome di una pudica ed esangue rappresentazione del binomio eros/thanatos. L'attrice viene sì svestita, le viene altresì fatto indossare un completino sexy da Catwoman, ma, grazie ai miracoli dell'editing, non vedremo le disturbanti ed esplicite scene di nudo che in un prodotto angoscioso come questo sarebbero state non solo funzionali, ma anche necessarie nel mantenimento dello spirito iperrealistico dell'opera. Certo, Adrian è un maniaco timido (si veda anche il modo in cui reagisce davanti alle avance di un'attrice sfrontata più avanti nel film), quindi l'assenza di nudi nel “suo” film è in parte giustificata dalla personalità dello stesso, ma sarebbe stato interessante osservare le sue reazioni durante la vestizione feticistica, fra indugi o colpevoli toccatine impulsive. Ma non ci è dato scoprirlo. Scelte di regia, ci mancherebbe. Ben più grave, invece, l'inevitabile scena dello strangolamento in diretta (perché in questo caso l'editing non accorre in soccorso? La scelta puzza di ipocrisia mainstream), che appare decisamente farlocca. Sarà per il tipo di inquadratura, sarà per la paura di Tofei di “stringere troppo” o per l'imperizia effettistica (insomma, nemmeno un po' di colorito cianotico sul volto della vittima?), ma il risultato è quantomai deludente.

    Si procede con altre due attrici, la seconda delle quali viene legata a un letto e uccisa a coltellate. In questo caso la mancanza di credibilità è ancora più lampante: sistemato un telo bianco davanti alla ragazza, delle ben poco impressionanti chiazze di sangue iniziano a formarsi sul tessuto, mentre la vittima seviziata lancia strazianti e inverosimili urla (perché mai un'attrice romena in pericolo di vita dovrebbe gridare “help” in inglese?). Effetti speciali poveri e cinema found-footage difficilmente vanno d'accordo.

    Il terzo atto, con l'ultima attrice del lotto, si trasforma in un mero esercizio di teatro dell'improvvisazione. “Io sono un maniaco, tu devi convincermi a non ucciderti”. Dati il contesto e la traccia, si procede con un lungo dialogo fra il carnefice e la potenziale vittima, in uno scambio di battute che, più che alla suspense, tende alla noia. Ancora una volta il realismo va a farsi benedire, specialmente quando la “nostra” prende in mano la videocamera senza nessun motivo apparente e, alla stranamente logica domanda di Adrian sul perché l'abbia fatto, lei tentennando ammette di non saper rispondere. Reazioni sbagliate, frasi fuori luogo, una risoluzione campata per aria. Sotto certi aspetti l'effetto straniante à la Creep 2 coglie nel segno, ma cede presto il posto allo sconforto di chi aveva colto nelle premesse del film un bagliore di genialità.

    Alcuni giochi metafilmici non sono per niente banali: alle vittime terrorizzate Adrian rivela di aver informato i vicini di casa circa il film dell'orrore che sta girando; urlino pure quanto vogliono, nessuno verrà ad aiutarle. Il fatto che il film si svolga realmente a casa di Adrian e che, probabilmente, egli abbia davvero avvertito i vicini circa il qui presente Be my cat, fa per un attimo rabbrividire e a lungo riflettere sulla stessa natura filo-doc(mock)umentaristica dell'opera.

    Non è quasi certamente simulata la breve parentesi in cui due ragazzi si avvicinano al maniaco durante il suo secondo delitto per assicurarsi che non si stia perpetrando un vero crimine.

    Dispiace che la buona intuizione di fondo e l'approfonditissimo ritratto psicologico di una mente perversa, che potrebbe tranquillamente accostarsi a un Norman Bates o a un Mark Lewis de L'occhio che uccide, vengano annichiliti da una morigeratezza exploitativa e da una messinscena poveristica nei momenti in cui il film si dimostra maggiormente vulnerabile sotto il profilo della verosimiglianza. Il minimalismo si trasforma in carenza di budget, l'angoscia diventa ridicolaggine. Una volta scampati al potere suggestivo del primo atto, tornare indietro è impossibile, e arrivare alla fine della storia diventa soprattutto logorante.

    Un esperimento riuscito solo a metà, che avrebbe meritato più attenzione da parte dell'inventivo Tofei, ma che offre comunque abbastanza spunti interessanti da superare la barriera della perdita di tempo.
    Ultima modifica: 18/08/20 17:11 da Anthonyvm