Discussioni su Assholes - Film (2017)

  • TITOLO INSERITO IL GIORNO 4/06/20 DAL BENEMERITO ANTHONYVM
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  • Quello che si dice un buon film:
    Anthonyvm
  • Scarso, ma qualcosina da salvare c’è:
    Schramm

DISCUSSIONE GENERALE

1 post
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  • Anthonyvm • 4/06/20 16:07
    Scrivano - 806 interventi
    Una locandina che pare ideata dall'illustratore del poster di The worm eaters e disegnata dal concept artist di Lucifer Valentine, un titolo sottile come un fusto di sequoia... Pare evidente che l'intento primario dell'opera sia di giocare all'eccesso, puntando alla volgarità gratuita e a facili reazioni di disgusto e di indignazione da parte del pubblico. Eppure la cura formale che contorna il film è così studiata, il contrasto fra la pulizia delle immagini e la lordura dei contenuti è così spiazzante da rendere difficile un giudizio oggettivo. Esordio dietro la macchina da presa per l'attore Peter Vack, che opta per il cattivo gusto à la John Waters di Pink Flamingos: come il regista di Baltimora, si rivela narrativamente anarchico e incurante dei tradizionalismi cinematografici, ma, rispetto al maestro, decisamente più elegante nella messinscena. Il plot ruota attorno a una benestante famiglia ebrea: vigorosa e loquace madre psicologa, padre un po' in disparte, figlio viziato e bulletto (Adam, lo stesso regista Vack), figlia complessata ed ex-alcolizzata (Adah, interpretata da Betsey Brown) ora sotto le cure di un analista. Dallo stesso dottore va il migliore amico di Adam, il feticista Aaron (Jack Dunphy), che ha una vera e propria passione per gli ani femminili. Adah e Aaron finiranno per innamorarsi, ma la loro relazione prenderà vie inattese e profondamente insalubri. E così inizia un'epopea del disgusto: si parte con lo schifosissimo herpes genitale che colpisce Aaron subito dopo il primo rapporto con Adah (quest'ultima se l'è preso fumando dal bong di suo fratello), si prosegue con primi piani di ulcere su labbra e narici dei due amanti, che nel frattempo hanno anche preso a drogarsi per via nasale, poi si culmina (almeno per il momento) con un vero e proprio parto rettale di stampo demoniaco: la Eileen Dietz de L'esorcista (il mitico volto di Pazuzu, ora settantenne ma ancora disposta a farsi riprendere in topless, con escrementi finti a coprirle strategicamente i capezzoli), nel ruolo del demone Mephistoteles (o Mephy, come viene soprannominata dai due improbabili “genitori”). Nel quadretto non mancano poi il vomito e le feci semiliquide spalmate in faccia. Ma il meglio (o il peggio) deve ancora venire: Adam e Aaron, che nel corso del film si comportano da perfetti stronzi (da cui il titolo “assholes”) finiscono per trasformarsi, in una strana forma di moralità collodiana, in vere e proprie facce da... Avete presente l'episodio di South Park in cui due genitori con la Sindrome da Torsione Polare cercavano disperatamente il proprio figlioletto scomparso? L'aspetto è pressapoco quello, con tanto di peti che spernacchiano fra una parola e l'altra durante i loro allucinanti discorsi. Ma è davvero solo fuffa disgustosa fine a se stessa? In realtà il gioco di Vack pare più fine e dissacrante di quanto si potrebbe pensare: il giovane cineasta esibisce un registro degno di un'impegnata produzione arthouse (monologhi semi-improvvisati, continui riferimenti freudiani, set sbalorditivi che sembrano un concentrato di arte moderna, fra neoplasticismo e pop-art), per poi negarlo immediatamente dopo con gag corporali che solitamente si riscontrano nei filmacci di serie Z della Troma (la nascita di Mephy, le assurde foto di famiglia alla fine del film). Grottesco e trash, sarcasmo e demenza, un (dis)equilibrio stranamente efficace, soprattutto per la capacità di Vack di andare fino in fondo, senza timore di osare: se c'è da mostrare un pene in dettaglio, quello apparirà sullo schermo; se è previsto che due attori abbiano rapporti orali reciproci nella zona rettale, questo è ciò che vedremo. C'è una certa onestà di fondo, una genuinità che allontana il tanfo di ipocrisia di tanti prodotti fintamente “irriverenti”. Se poi si pensa che la Brown e Vack sono fratelli nella vita reale e che quelli nel film sono i loro veri genitori, l'intero marasma assume sfumature vagamente angoscianti. A ogni modo, non sempre Vack fa centro: certe trovate sono davvero troppo banali nella loro ricerca del ribrezzo a tutti i costi (si veda una delle sequenze al ristorante, coi due amanti che si slinguazzano a vicenda di fronte agli inorriditi commensali), per non parlare della tranche centrale, in cui la coppia, sotto il devastante effetto della droga, scorrazza per Times Square importunando pedoni, autisti e buttafuori del cinema, senza lesinare in occasionali uscite razziste: si tratta di scene non simulate, che quindi trasportano il film in territori da reality TV in stile Jackass. Parentesi poco sensata e fuori luogo, più immatura che provocatoria: Dunphy e la Brown si muovono a disagio per strada sbraitando come finti-ossessi (e si preoccupano quando scambiano un netturbino per un agente di polizia), cercando di sconvolgere i passanti, che in realtà sembrano più imbarazzati di loro. Alla comicità di bassa lega si alterna un umorismo surreale dall'impianto British, che si coglie in particolar modo durante i dialoghi, decisamente più riuscito: riunioni di psichiatri che, minacciati da una Adah armata di coltello, si mettono a disquisire sulla simbologia fallica dell'arma; Adam che, divenuto psicanalista a sua volta, in barba al segreto professionale parla del suo ultimo caso per poi essere interrotto da un attacco fulmineo di vomito della sorella e dell'amico; la signora demente che scambia Aaron per un amico di famiglia anche se lui afferma di non averla mai vista. E in più tumori causati da cellulari, riconciliazioni sulla tazza del gabinetto, baci fra ani in un'assurda parodia de “Gli amanti” di Magritte. Non si ride, ma ci si trova sovente con un sogghigno straniato sulla bocca. Per l'ultima parte, quella della già citata metamorfosi cronenberghiana di Aaron e Adah, Vack sfrutta un format mockumentaristico, scomodando e parodiando certi programmi-shock televisivi: l'esito è tecnicamente buono ma concettualmente semplicistico e poco raffinato, come una battutaccia inserita a forza alla fine di una storiella divertente. “Assholes”, inutile dirlo, non è un film per tutti: sozzo, triviale, destabilizzante a causa della sua eleganza compositiva, non sempre coerente sotto un profilo formale. Ciononostante, resta un prodotto talmente bizzarro e sopra le righe che, una volta visto, difficilmente abbandonerà i meandri della memoria. Una semplice collezione di sketch nauseanti o un pezzo d'arte provocatorio come si faceva nei Seventies? Forse, fatte tutte le considerazioni, è impossibile dare una risposta obiettiva alla domanda. Da provare... o magari no.