Anthonyvm • 7/08/20 18:38
Scrivano - 804 interventi Negli anni '80 la televisione inglese sembrava essersi imposta l'obiettivo di educare e di sensibilizzare il pubblico circa temi importanti sfruttando immagini il più traumatizzanti possibile. Si ricordano le campagne pubblicitarie che invitavano i più giovani a non scherzare con l'alta tensione (e quale miglior mezzo se non mostrare bambini fulminati mentre giocano a pallone nei pressi di una sottostazione elettrica?) o l'arcinoto
Ipotesi sopravvivenza con la sua inoppugnabile carica di ottimismo.
Nel 1983 la
BBC Scotland tenta di terrorizzare i residenti delle campagne dipingendo una presunta epidemia di rabbia e tutto ciò che essa comporterebbe. Il risultato è un bizzarro amalgama di animal-horror, dramma soapoperistico e (udite, udite) persino thriller da sequestro à la
Pet.
Divisa in tre episodi da 50 minuti ciascuno, la miniserie
The mad death, tratta dall'omonimo romanzo di Nigel Slater e diretta dal reduce della Hammer Robert Young (suoi
La regina dei vampiri e l'episodio
Charlie boy de
I racconti del brivido), parte alla grande con una sigla seriamente agghiacciante, fra canti infantili ridotti a un sibilo e lente riprese di gocce d'acqua su uno sfondo buio, il tutto accompagnato dalle ottime musiche di Phil Sawyer.
La prima puntata (la migliore del trittico) descrive l'origine dell'infezione. In Francia un gatto siamese viene morso da una volpe malata, quindi la sua incauta padrona lo porta illegalmente con sé nel Regno Unito. La catena di contagi prosegue dunque in luogo inglese, quando il micio viene investito da un'auto e successivamente mangiato da un'altra volpe. Quest'ultima viene trovata per strada dall'Ed Bishop di
UFO e, poiché mansueta, adottata dall'uomo come un peculiare animaletto domestico. Peccato che Bishop si tagli accidentalmente un dito prima di accarezzare la boccuccia bavosa della creaturina (e qui lo spettatore impotente soffre nell'impulso di prenderlo a schiaffoni), condannandosi da solo. Come se non bastasse, finisce pure per infettare la sua amante (eh, sì, Bishop è un adultero).
Poco tempo dopo la volpe diventa ingestibile e attacca il suo nuovo "padrone" saltellando e sbraitando come il gatto nero di
Re-animator (qui siamo in pieno horror animalesco), prima di scappare nel bosco portando con sé la minaccia virale.
Da qui in avanti la malattia fa il suo corso, Bishop finisce in ospedale e osserviamo i tremendi effetti dell'idrofobia sul suo corpo. Non solo i classici tremiti e arsure di gola, ma anche veri e propri trip paranoidi a un passo da Polanski, ricchi di primi piani su gente che sorride sardonica e infermiere che approfittano di lui in topless.Facciamo nel frattempo la conoscenza dei nostri protagonisti, il dottor Hilliard (Richard Heffer), che non vede l'ora di trasferirsi a Bruxelles per lavorare alla FAO, e la dottoressa Maitland (Barbara Kellerman), impegnata in una relazione burrascosa con Johnny (Richard Morant).
Durante la seconda puntata (la meno interessante) approfondiamo i rapporti fra i personaggi, indugiando sul classico triangolo amoroso che non porterà a nulla di buono. Insomma, il focus sembra spostarsi dall'epidemia di rabbia a temi melodrammatici di dubbio interesse, e il ritmo ne risente. E quando non si parla di tresche amorose, il focus si sposta sulle norme di sicurezza alle quali sono sottoposti i possessori di animali domestici della zona. Cani con la museruola, divieto di circolazione per i cavalli e così via. Eccessi di verbosità e penuria di svolte significative non aiutano la scorrevolezza.
Per brevi attimi assistiamo alla triste fine dell'amante di Bishop, con tanto di bava alla bocca nella miglior tradizione dell'immaginario collettivo (
La rabbia dei morti viventi insegna), ma si tratta di poca cosa all'interno di una puntata narrativamente transitoria.
Fortunatamente una buona tranche viene dedicata all'assalto di un pastore tedesco idrofobo all'interno di un centro commerciale: fra saliva infetta spalmata sulle vetrine, gente assediata nei negozi e una sprovveduta famigliola imprigionata in macchina, gli echi del coevo
Cujo di Lewis Teague si fanno pressanti e l'intrattenimento thrilling si rivela salvifico.
Viene poi introdotta la signora Stonecroft, interpretata dalla grande caratterista Brenda Bruce (vista anche nel seminale
L'occhio che uccide di Powell), un'anziana paladina dei randagi, fortemente ostile nei confronti delle autorità che le hanno sequestrato cani e gatti per tenerli in osservazione. Sarà proprio la Stonecroft a liberare dalle catene gli animali, disperdendoli nell'area rurale e introducendo così il terzo atto della storia.
Il terzo episodio cambia strada. Dato che i randagi, presunti idrofobi, sono a piede libero, viene organizzata una folle caccia al cane, ripresa dettagliatamente dall'occhio spietato di Young. E così inizia una sequela di cani presi a fucilate e inseguiti in elicottero in pieno stile
The plague dogs di Martin Rosen, spostando l'asse orrorifica su terreni animalisti, fra
La sindrome di Frankenstein di Fessenden e
Earthlings. Particolarmente difficili da digerire le scene in cui gli improvvisati cacciatori passano in rassegna i corpi senza vita delle loro prede, appuntandosi la razza e prendendosi i meriti dell'uccisione. Ma la sequenza più brutale resta quella in cui il padrone di un cane si vede costretto a giustiziare il proprio amico peloso, che, ingenuamente, si mette di fronte alla canna del fucile come Seth Brundle ne
La mosca.
In mezzo a questo marasma, atroce incubo per qualsiasi pet-lover, le brevi parentesi di classici attacchi bestiali (fra militari attaccati in macchina e bambine accerchiate da branchi di cani non sorprendentemente irritati) fanno quasi tirare un sospiro di sollievo.
In questa ecatombe faunistica, forse giustificata dallo stato di emergenza ma nondimeno crudele, i protagonisti assumono per certi versi il ruolo di villain, divenendo sempre più detestabili agli occhi del pubblico: gli stessi Hilliard e Johnny sembrano mossi più dal rancore reciproco (il dottore finirà per sparare sommariamente al cavallo del suo rivale in amore, scatenando la furia vendicativa di quest'ultimo) che dall'impegno civile. Non c'è spazio per dubbi morali o per compatimenti: le bestie vanno abbattute, e chi riesce a farne fuori di più vince l'ambitissimo premio macho. L'ira e l'invidia diventano malattie anche più temibili della rabbia medesima (si veda la breve sessione di caccia umana fra Johnny-cecchino e il suo antagonista, o la sfiorata fucilazione della Maitland), ma gli autori ci negano la soddisfazione di vederle portate alle estreme conseguenze: un punto a favore del realismo, due contro l'appagamento del pubblico.
Il plot prende una piega imprevista quando la signora Stonecroft, nella miglior tradizione delle gattare pazze, rinchiude la dottoressa Maitland (venuta a farle visita dopo la sospetta fuga dei cani in quarantena) in uno stanzino buio pieno di felini. Il fatto che la ragazza soffra di ailurofobia e che i gatti in questione siano poco socievoli e forse portatori del virus (le azzeccatissime musiche di Sawyer aiutano), trasformano inaspettatamente questo epidemic-movie in un gioiellino di claustrofobia orrorifica. L'intera parte dedicata al sequestro della dottoressa, con Brenda Bruce decisa a educarla come una "good kitty" (arrivando a nutrirla con cibo per gatti!), è talmente fuori contesto che sembra un cortometraggio indipendente insertato all'interno del'opera, eppure le atmosfere sono indovinate e la prova della Bruce nei panni di una provetta lady-psycho resta impressa.
Nel complesso, la miniserie non brilla per solidità di script o per simpatia dei personaggi, e se si fosse mantenuta sui livelli del primo episodio, magari eliminando qualche subplot superfluo e tagliando sui dialoghi di raccordo (in poche parole, se fosse stata pensata come un film TV da novanta minuti), avrebbe ottenuto risultati migliori.
A ogni modo, anche così com'è, è sufficientemente interessante per qualsiasi cultore dell'animal-horror o dei fright-film televisivi. Crudo e inquietante quanto basta, merita una visione.
Anthonyvm
Schramm