Your flesh, your curse - Film (2017)

Your flesh, your curse

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TITOLO INSERITO IL GIORNO 17/11/19 DAL BENEMERITO ANTHONYVM
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Anthonyvm 17/11/19 12:04 - 5686 commenti

I gusti di Anthonyvm

Juhl, con qualche soldo in più, gira un film gemello (persino più deprimente) di Madness of many. Le tematiche sono le stesse, ma la confezione è decisamente più professionale (fotografia da urlo, musiche azzeccate, ottimo montaggio). La narrazione è criptica e frammentaria, quasi lynchana, talvolta incomprensibile, ma davanti al fascino angosciante delle immagini la razionalizzazione pare forzata e fuori luogo. Le attrici-feticcio di Juhl ci sono quasi tutte e - la Damgaard su tutte - danno il meglio di sé. Lento, non molto gore, ma d'impatto.
MEMORABILE: Lo stupro-omicidio di Juliet White; Rinascita; L'inquietante "guida"; La donna-cane; Braccia e guance scarnificate a mani nude; La donna nella vasca.

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  • Homevideo Anthonyvm • 18/11/19 17:38
    Scrivano - 806 interventi
    Distribuito in DVD (edizione slipcase doppio disco) dall'anglo-italica TetroVideo.
    Audio in Inglese con sottotitoli in Italiano.

    Fra gli extra i corti Insekt e Dare divas sempre di Juhl, in Danese con sottotitoli in Inglese.
    Gli altri extra, compresa un'intervista selfmade di Kasper e parte del suo cast, non sono sottotitolati.
  • Discussione Anthonyvm • 18/11/19 18:37
    Scrivano - 806 interventi
    A quattro anni da Madness of many, Kasper Juhl sembra dire: “Okay, sono maturato e voglio che ve ne accorgiate tutti”. Un po’ come quando si disegna uno stesso soggetto a età diverse e si sorride notando i progressivi miglioramenti del tratto. Your flesh, your curse è, se vogliamo, una sorta di reboot del film del 2013.

    Sviluppata in quattro capitoli (come Madness of many, appunto), la storia (anche se è azzardato parlare di un plot vero e proprio) è pressoché la stessa: una ragazza che ha subito violenze sin dall’infanzia (in Madness of many si chiamava Victoria, qui è invece Juliet, ma l’emblematico cognome White rimane lo stesso) ed è precipitata in un inferno quotidiano di soprusi, depressione, droghe e alcol, viene infine uccisa dall’ennesimo aguzzino. Ma la morte non è la fine di tutto, è una rinascita. E dopo? Chi si aspetta una specie di gratificazione dopo le sofferenze patite nella vita terrena resterà amaramente deluso: per Juliet ricomincia un ciclo di sevizie, un eterno ritorno alle esperienze che l’hanno formata (in un loop à la Ricomincio da capo per certi versi), ma sotto una nuova (e non sempre migliore) prospettiva. Si può imparare qualcosa alla fine del percorso? E se il percorso stesso non avesse una fine? Sta forse nell’accettare la maledizione che chiamiamo esistenza il senso di un tutto il cui senso è negato?

    Juhl pone gli stessi interrogativi che aveva utilizzato per Madness of many, ma questa volta il suo approccio è estremamente più criptico, più elegante e meno didascalico. La voce narrante della protagonista si limita a poche sequenze intimiste, evitando sofisticati sproloqui filosofici e lasciando allo spettatore il compito di cogliere il significato di ciò che vede. Se da un lato la cosa può apparire frustrante (talvolta l’impenetrabilità dell’opera si macchia della pretenziosità fine a se stessa di tanti film arty), dall’altro rende la visione decisamente più stimolante.

    Questo cambio di approccio narrativo porta anche certi mutamenti nel quadro generale del messaggio e del disegno complessivo, evidenti soprattutto nel finale sospeso ed enigmatico. Your flesh, your curse risulta più cupo e pessimista rispetto a Madness of many: se la liberatoria presa di coscienza di Victoria lasciava la parvenza di un’incrinatura luminosa sulla corazza nichilista del film, il limbo post-mortem di Victoria, violento e incessante, pare non lasciare l’ombra di una speranza, e l’accettazione della “curse” del titolo avviene sotto luci molto più plumbee rispetto al film precedente.

    Così come YFYC è un film più complesso di MOM, anche il personaggio di Juliet è più sfaccettato e approfondito: questa, al contrario di Victoria, non è l’unico personaggio di cui ci è dato di vedere il viso. Entrambe le giovani vengono interpretate da più attrici, come a innalzare il valore simbolico del personaggio su livelli universali e femminili in senso assoluto, ma è solo in YFYC che la quotidianità pre-mortem della protagonista ci viene presentata in dettaglio: dal padre che abusava di lei da piccola alle amiche di bevute, passando per lo squallore delle sequenze di prostituzione e la durezza dello stupro cui seguirà la sua uccisione. Juhl è abilissimo nel rappresentare la cruda drammaticità degli eventi, tanto che l’elemento horror-surreale (nella forma già nota di torture, catene, donne al guinzaglio, vomito di sangue, cannibalismo) finisce per essere sopraffatto dall’angoscia realistica dell’ordinaria violenza terrena. Le attrici che prestano la faccia al personaggio di Juliet sono tutte sorprendentemente brave, e la Damgaard (interprete principale) spicca: la rabbia, la disperazione e la fragilità tormentata che riesce a evocare (fa rabbrividire la sottomissione con cui si piega alle richieste di un partner viscidamente "paterno") colpiscono lo spettatore trascinandolo nell’abisso depressivo che la opprime (“We’re cursed together”, dirà Juliet alla fine del film).

    Risalta la figura della “guida”, un misterioso individuo che indossa un’inquietante maschera arborea e che, come un Virgilio luciferino, indirizzerà l’anima di Juliet verso la sua nuova percezione del cosmo. Buon espediente narrativo, senz’altro più funzionale dell’insistente voce fuori campo di Victoria che si sentiva in Madness of many.

    Anche la conoscenza dell’amore attraverso il patimento e la morte avviene, rispetto a MOM, in maniera più sottile e ambiguamente efficace: in uno dei suoi “ritorni” ciclici, Juliet incontra l’uomo che l’ha uccisa e gli si offre sessualmente. È questa l’unica occasione in cui un rapporto carnale assume un valore alto ed estatico, in un’elevazione spirituale durante la quale la ragazza ammette di riconoscere “l’amore, il puro amore”. Eros e thanatos, un dualismo ricorrente: si prenda la scena in cui due donne coperte di sangue si accarezzano e amoreggiano fra loro, in un’effusione saffica e macabra, persa nel tempo e nello spazio (il suggestivo montaggio, che gioca sulle sovrimpressioni e sulle lente dissolvenze, rafforza il concetto).

    Al di là delle interpretazioni esistenzialiste dell’opera (che, lo ammetto, sarebbero state in gran parte confuse senza la salvifica visione di Madness of many), la qualità tecnica dell’opera di Juhl è innegabile: la fotografia, curata dallo stesso regista, rapisce lo sguardo con nettissimi giochi di chiari e scuri, neri e bianchi, mentre la musica, ora struggente, ora inquietante, accompagna le immagini inquadrandole alla perfezione. Il montaggio sonoro curatissimo riempie eventuali vuoti e consolida l'atmosfera.

    E la violenza grafica? Siamo in ambiente “extreme”, quindi un po’ di sangue è lecito chiederlo, no? Be’, YFYC non è di certo il film più brutale del regista danese. Il gore c’è, ma, specie se confrontato con altre opere di Juhl, è molto limitato. Cionostante, la sequenza in cui l’ennesima personificazione di Juliet si scarnifica a mani nude gli avambracci e una guancia è davvero disturbante, nonostante gli effetti speciali siano alquanto elementari. Questo, unito alla lentezza del ritmo e alla durata piuttosto corposa (100 minuti, che per un indie low-budget non è poco) possono deludere chi è in cerca di sangue facile e di splatter gratuito.

    Insomma, forse l’opera più completa di Kasper Juhl. Certamente imperfetta (eccessivamente criptica, troppo lenta, a tratti vistosamente pretenziosa), ma un ottimo portfolio per un artista che conosce i mezzi, sa come usarli e ha di sicuro qualcosa da dire.