Diacronico nell'intercettare analogie, campi semantici e omogeneità contestuali tra passato e presente di una piccola comunità emiliana - Bobbio, paese d'origine del regista - è un film meditativo che mira all'indagine proustiana, all'enigma identitario, all'epifania antropologica, i cui tentativi di universalizzazione finiscono con l'appiattire l'humus locale nel macchiettismo. L'allusione che non si fa sostanza lascia posto al sospetto di inconsistenza. Inflazionatissimi Rohrwacher ed Herliztka; Timi nel pantano dell'istrionismo.
Bellocchio e i suoi familiari in un'opera probabilmente per lui psicoanalitica (ma di sicuro politica), gira con una "cinepresa" libera, spaziando dal '600 ai giorni nostri e descrivendo le paure di sempre, i feticci del potere e tanto altro ancora. L'impressione è di indurre ciascuno di noi all'ascolto delle proprie voci interne, a briglia sciolta, come solo un'operazione simbolica può provocare. Dietro e dentro, il profilo della sua Bobbio, come un ritorno alle origini.
Pellicola poco convincente, soprattutto nella parte ambientata nel presente. Infatti, se nella prima metà almeno si può apprezzare l'impegno nella ricostruzione degli eventi che avevano avuto come fulcro il monastero di Bobbio; nella seconda, complici personaggi poco convincenti (il truffatore e il russo), o semplicemente grotteschi e fastidiosi (i mantenuti dallo stato), si finisce per perdere anche quel minimo interesse scaturito dalle passate tribolazioni della protagonista. L'unico a salvarsi è l'anziano conte, che rifiuta la modernità e che era riuscito a "non vivere" nel suo limbo sereno
MEMORABILE: Lo scambio verbale tra l'anziano conte e il dentista.
In quest'ultimo film Bellocchio gioca in casa ancor più del solito, per ambientazione e per libertà di movimento. Interamente girato a Bobbio, ripropone i temi cari al regista con due storie ambientate in epoche diverse. Il legame tra le due parti, così diverse tra di loro, si presta a varie interpretazioni; è evidente comunque come la critica alle disumane prove dell'inquisizione della prima parte si trasformi nella seconda in ironico atto d'accusa nei confronti dell'amministrazione pubblica corrotta. Spiazzante e indefinibile.
Tre anni dopo Bella addormentata si rivede Bellocchio con un'opera piuttosto surreale (fatto non nuovo nel suo cinema), ma che riesce a catturare l'interesse dello spettatore: ci si appassiona, ci si disorienta, ma alla fine si rimane quasi abbacinati. Peccato che la logica non ci sia, anche quando verrebbe richiesta (ma perché il salto temporale?). Un'opera da vedere, anche se non si è necessariamente esperti o ferrati sull'autore. Ottimo il cast.
MEMORABILE: La prestazione di Herlitzka, novello Nosferatu; Lidya Liberman che esce dalla prigione.
Visione deludente per una storia che prende poco, non fa capire bene dove vuole andare a parare e soprattutto rivela una grave inconsistenza di fondo. A quel punto anche il cast è sprecato (risaltano più alcune figure secondarie che i nomi famosi) e Bellocchio non riesce a cavarne fuori granché. Finale metaforico ma neanche quello convince.
Due film in uno, accomunati da una legge opprimente del passato e da una odierna legge pressoché assente ove la giustizia, però, sembrerebbe trionfare in entrambi i finali. Atmosfere caravaggesche nella prima parte, godibili e grottesche nella seconda (banalissima). Nel complesso un film lento da dimenticare ben presto.
Bobbio e le trasparenti acque del Trebbia. Bellocchio torna a giocare in casa, ispirato dalle antiche prigioni del convento di San Colombano. Film temporalmente spezzato in due, dove l'aggancio tra l'una e l'altra parte diventa una questione politica, come il regista stesso racconta. Affascina di più la prima parte con un'inquisizione nostrana e una fotografia pittorica, molto inerente al tema. La seconda parte, contemporanea, è dominata da Herlitzka, che rappresenta il conservatorismo ma anche la decadenza di tutto ciò che non si può rinnovare.
Una vicenda che si snoda su due spazi temporali ben distinti avendo come denominatori comuni Bobbio e le acque del Trebbia. Una prima parte affascinante in cui regna l'oscurantismo inquisitorio, una seconda più riflessiva e politica in cui comunque non manca una lucida analisi sul tempo attuale. Cast assortito in cui Timi appare sprecato. Buono e metaforico il finale.
Cos’ha a che vedere la vicenda della suora murata viva nel 600 con le attuali beghe di un paese di montagna che ruota attorno alla figura di un vecchio “vampiro”? Il punto comune sono la location di Bobbio, splendidamente restituita, e la ricorrenza di nomi e volti, ma è la distanza di spirito tra le due epoche a evidenziare un lancinante gap: dalla tragedia di un tempo che incontra il dogma e l’eros, a un oggi grottesco e gogoliano (L’Ispettore), immemore del passato se non come lugubre e bizzarro vagheggiamento. Straniante ed enigmatico.
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