Il mito, la riscoperta delle radici, l'avidità umana, il fascino della narrazione con le sue trappole ed i suoi inganni. Questi sono solo alcuni dei temi dell'esordio nel cinema di finzione dei due registi che ci regalano un film complesso ma splendido e finalmente lontano dalle mode e dagli stantii stereotipi del cinema italiano. E la fanno con sapienza, appagando la mente ma anche l'occhio con più di un contatto con l'alonsiano Jua Jua. Prima parte più tradizionale, mentre la seconda è il vero colpo d'ala di un film notevole che merita anche più di una visione. Da non perdere.
Opera rarefatta, forse unica nel cinema italiano contemporaneo, nettamente spaccata fra un primo tempo che riecheggia le trasferte in costume di Avati e Pasolini e una successiva apertura verso territori quasi eggersiani, con una natura più panica che mai teatro di un'odissea con qualche retrogusto jodoroskiano o addirittura spaghetti western. Sceneggiatura con qualche vuoto o lentezza di troppo, ma buona scelta delle inquadrature, notevole fascino pittorico e folgorante utilizzo delle ambientazioni. Felice la scelta, nel cast, di taluni volti fotogenici pur nella loro sgradevolezza.
Verso la fine dell'Ottocento, in un piccolo borgo della Tuscia, il figlio del dottore si ribella alle prepotenze del principe nei confronti dei pastori e compie un atto che lo costringe a riparare in Patagonia... Narrata come fosse una leggenda tramandata nelle serata passate attorno al facolare, la storia dell'alcolizzato e anarchico Luciano è aspra come quellaTerra del fuoco in cui è ambientata una caccia al tesoro di herzoghiana crudeltà. A renderla pregevole è la regia sobria e rigorosa, la fotografia pittorica che esalta i paesaggi, il volto da santo eretico di Gabriele Silli.
MEMORABILE: Il prologo con gli anziani attorno al tavolo; Luciano beve il vino della messa; Il granchio cercatore; Il gioiello nel lago.
Il racconto delle gesta di un giovane libertario vissuto alla fine dell'800 e mitologizzato dall'accumularsi della leggenda nel tempo, attraverso le parole di un gruppo di paesani della Tuscia che ne ha conservato la memoria. Nettamente diviso, con una prima parte "antropologica" che presenta personaggi e ambienti e una seconda dallo stile western agli estremi confini del mondo, in Patagonia. Un ritmo lento e riflessivo, una grande cura estetica per una storia volutamente anacronistica lontana da ogni fine commerciale, con il valore aggiunto di un cast non professionista.
Figlio di un medico deve riparare in Patagonia causa dissidi con un principe. Raccontato come fosse una leggenda, ha il suo fascino nel descrivere la fine Ottocento come fosse un film di Diritti, usando le parlate e i costumi originari. Prima parte con notevole fotografia negli interni, prosieguo nell'America del Sud sfruttando gli ambienti rocciosi da fine del mondo. Non sempre filante, con il protagonista che catalizza bene l'attenzione anche quando la trama ha pochi sviluppi.
MEMORABILE: La laguna tra le rocce; La porta bruciata; Il ciondolo in regalo.
Re Granchio si muove tra la leggenda popolare e il mito del tesoro nascosto, in un incontro di culture e di popoli interessante ed emotivamente coinvolgente. Dal punto di vista tecnico la messa in scena è di altissimo livello, con la fotografia che cambia tra prima e seconda parte in maniera lodevole e una serie di ambientazioni rustiche e naturalistiche davvero notevoli. La colonna sonora è di ottimo livello, così come la prova attoriale del cast, in particolare del protagonista Silli, anche lui bravissimo nel mutare da una personalità all'altra a seconda della situazione. Ottimo.
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