Una scelta registica coraggiosa (la sua quinta e ultima) e antidivistica per Paul Newman, che con sensibilità, delicatezza e mestizzia, porta sullo schermo la seconda versione cinematografica tratta dal dramma teatrale di Tennessee Williams (la prima era quella di Irving Rapper del 1950).
Ambientato tutto in un unico set (l'interno di un appartamento) e denso di un atmosfera soffocante e opprimente, che trasuda di decadenza e solitudine, impreziosito dalla magnifica fotografia di Michael Ballhaus (straordinari i giochi di luce proiettati sulle pareti durante il blackout-per le bollette non pagate-durante la cena) e da un quartetto attoriale che sfiora la perfezione (gigantesca la Woodward nel ruolo dell'insopportabile madre apprensiva, non di meno la Allen nei panni della timidissima e complessata figlia zoppa e Malcovich il figlio nevrotico e "ribelle").
Basato fedelmente sul testo williamsiano (senza il bisogno di scriversi sopra una sceneggiatura), quello di Newman è puro cinema teatrale, doloroso e intenso, con una narrazione d'altri tempi (nei dialoghi, nella messa in scena), con momenti struggenti che toccano il cuore (Laura che, con timidezza, mostra a Jim la sua collezione di animaletti di vetro, con la toccante metafora dell'unicorno) e altri intrisi di cinismo e amarezza (le litigate tra Tom e sua madre, il blocco psicologico di Laura per andare ad aprire la porta, il finale infelice e l'ennesima delusione per la povera Laura, sempre più sola e incompresa, tra le braccia della madre), nonchè di attimi poetici che mettono i brividi (la luna).
Oltre all'assoluta fedeltà del testo, Newman sorprende per come dirige i suoi attori, per il suo tocco fine e aggrazziato, per come muove la macchina da presa in questo gruppo di famiglia (disfunzionale) in un interno (bellissima la panoramica circolare sul volto sofferente di Laura) e, nonostante il rischio noia e monotonia, sappia tenere l'interesse per più di due ore, in un opera che rifugge la spettacolarità, così radicalmente antihollywoodiana e con un occhio al cinema europeo d'autore, fitta di dialoghi e introspezioni psicologiche.
Kammerspiel che si ammanta di riverberi da southern gothic (tipiche del drammaturgo di
Improvvisamente l'estate scorsa) e superiore alla prima versione del 1950, che era comunque una buona trasposizione (anche se, in questa di Newman, manca la scena in cui la madre ordina a Laura di camminare per la stanza negando la sua zoppia, ma che, però, ha un finale più cupo, forse meno speranzoso-Laura non augura felicità a Jim e alla sua fidanzata, ma se ne stà mesta tra le braccia della madre- e mentre Rapper, in piccole dosi, usciva dalle quattro mura asfissianti e claustrofobiche, Newman ci rimane per tutto il tempo, con Tom che racconta la sua storia familiare a ritroso, guardando in macchina, tra le pareti fatiscenti e muffose di quella che era stata la sua casa) .
Cinema puramente tetrale (o teatro nel cinema) che , in un certo qual modo, continua il fil rouge newmaniano sui ritratti femminili complessi (
La prima volta di Jennifer,
L'effetto dei raggi gamma sui fiori di Matilde) e , come sempre, la signora Newman fa gli onori di casa (che, come indicava la recensione di
Ciak del giugno 1988), sembra(va) bella e pronta per una candidatura all'Oscar.
Unica nota stonata il pessimo commento musicale di Henry Mancini, rimasto agli anni 50.