La Manson family raccontata sotto un punto di vista intimista.
Film ipnotico, sussurrato, gelido, denso di presagi e paranoia, quasi "europeo" nello stile, con lunghi silenzi quasi dumontiani e un atmosfera plumbea e asfissiante
Buon esordio di un talentuoso regista, che racconta a flashback alternati con il presente
Martha (o Marcy May-come è stata ribattezzata dal guru mansoniano della comune-o Marlene-nome "in codice anonimo" per rispondere alle telefonate che riceve la comune) fugge tra i boschi dalla comune che la ospita (bellissimo l'incipit) e si rifugia dalla sorella nel Connecticut, in una villa in riva ad un lago
Martha non si adegua ai normali dettami del comportamento comune, e le restano i postumi indottrinati dalla family (fare il bagno nel lago completamente nuda, infilarsi nel letto della sorella mentre stà facendo l'amore con il marito), poi comincia la paranoia, la paura, il lento sprofondamento nella follia (i sassi gettati sul tetto della casa, i rumori notturni, il suv parcheggiato, il ragazzo che la fissa dall'altra sponda del lago, la telefonata, l'auto nell'emblematica e poco rassicurante chiusa finale), che sfocia nel party dato dalla sorella.
Ormai i dettami della family le rimangono addosso come un marchio, siano essi come retaggio di pensiero o come una sottile angoscia indellebile
Durkin lavora di sottrazione, in un narrato lento e sofferto, tra i ricordi dolorosi della family e la "nuova" Martha in balia delle proprie fobie e paure, figlia di un modo di vivere che rifiuta i dettami del vivere quotidiano (o borghese), che sfociano in cattiverie verso la sorella
Il guru della setta (un luciferino e mansoniano John Hawkes) che "iniza" le ragazze alla purezza e alla "disintossicazione", stuprandole in stato di semi incoscienza (il beverone alle erbe rosemaryano), dedica canzoni a Martha (e quì c'è tutta la purezza del cinema settario mansoniano anni 70), insegna a sparare (il gatto sofferente malato di cancro), raid notturni nelle ville borghesi per trafugare oggetti di valore, finchè l'home invasion degenera nel sangue e nella morte (gli omicidi Tate/La Bianca sempre impressi nella memoria), orge e deliranti discorsi sulla morte come attimo celestiale e sul nirvana
Durkin spulcia il cinema settantiano (soprattutto Altman, Polanski, Penn) e si balocca con stilemi e barlumi bergmaniani e hanekiani, divergendo la sua opera prima in suggestioni quasi oniriche , in un racconto pieno di sofferenza e disagio (Martha non parlerà mai alla sorella della comune, Martha vive la propria sofferenza orinandosi addosso, non dormendo, spaventata da ogni fruscio, terrorizzata dal suo precedente vissuto, quasi "lobotomizzata" da una setta che quando ne fai parte non ne puoi più uscire
Martha e davvero controllata dalla comune o e solo frutto della sua mente instabile e della sua paranoia? A questo Durkin non risponde, lascia che sia lo spettatore a decifrarne il vero contenuto
Peccato che il film pecchi di un autorialità un pò snob che ne limiti il risultato finale (classico delle pellicole Sundance), dove Durkin sembra si balocchi con il genere (il thriller, l'horror, il cinema della paranoia), ma la patina autoriale che fàtantocinemaimpegnato ne frena gli intenti e annacqui un pò il tutto
Resta comunque un opera originale, profonda, pregna di inquietudine e tormenti, che quando sembri diventi noiosa, spiazza con svolte narrative impreviste.
Bravissima la Olsen (non di meno la Paulson) e di lascivia ambigua il guru mansoniano di Hawkes
Martha non può fuggire, se non da sè stessa
Opera straniante (anche se non riuscitissima) che và ad aggiungersi al nuovo cinema settario (
The Sacrament,
The invitation,
Red State)
La morte è il momento più bello di tutta la nostra vita